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Immagine del redattoreAdriano Torricelli

SENECA CONTRO LA VIOLENZA DELLE FOLLE, I CIRCHI E IL QUALUNQUISMO (Lettere a Lucilio; Epistola VII)

Seneca: Lettere a Lucilio; Epistola VII






Introduzione:


In questa settima epistola a Lucilio, Seneca si sofferma in particolare sul problema della folla (turba) e, strettamente connesso ad essa, su quello dalla violenza. L’individuo preso in essa difatti, tende a perdere i propri freni inibitori, a comportarsi in modo irrazionale e ad abbandonarsi ai peggiori eccessi, consegnandosi ciecamente alle proprie passioni.

L’esempio degli spettacoli gladiatori, che qui Seneca fa, è estremamente pertinente. In essi gli uomini danno il peggio di sé, divertendosi alla vista del sangue e della morte di altri uomini, e ciò per il puro gusto di assecondare la violenza che è in loro.

Anche Agostino, nelle sue Confessioni, condannerà senza se e senza ma il circo e gli spettacoli di morte che vi si svolgono, ma su basi lievemente diverse, cioè su basi cristiane:

per Seneca lo spettacolo del circo è nefasto perché fomenta l’irrazionalità, l’abbandono dell’anima umana alle proprie passioni o concupiscenze (…Seneca era un filosofo pagano, e come tale erede della filosofia di Platone, fondata sulla dicotomia tra sensibile (=passioni) e razionale, tra illusione e Verità, tra non essere ed Essere!);

per Agostino invece, filosofo cristiano, il circo è da condannare prima di tutto perché in esso l’uomo uccide l’uomo, contravvenendo così alla Legge divina: di conseguenza, per il filosofo di Ippona, esso va condannato in quanto luogo di perdizione, non (se non tangenzialmente) in quanto luogo di abbandono di quel principio di razionalità e di moderazione che deve essere la base incrollabile del nostro agire.




SENECA LVCILIO SVO SALVTEM



1. Quid tibi vitandum praecipue existimes quaeris? Turbam. Nondum illi tuto committeris. Ego certe confitebor imbecillitatem meam: numquam mores quos extuli refero; aliquid ex eo quod composui turbatur, aliquid ex iis quae fugavi redit. Quod aegris evenit quos longa inbecillitas usque eo adfecit ut nusquam sine offense proferantur, hoc accidit nobis quorum animi ex longo morbo reficiuntur.

2. Inimica est multorum conversatio: nemo non aliquod nobis vitium aut commendat aut inprimit aut nescientibus adlinit. Utique quo maior est populus cui miscemur, hoc periculi plus est. Nihil vero tam damnosum bonis moribus quam in aliquo spectaculo desidere; tunc enim per voluptatem facilius vitia subrepunt.

3. Quid me existimas dicere? Avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? Immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui. Casu in meridianum spectaculum incidi, lusus expectans et sales et aliquid laxamenti quo hominum oculi ab humano cruore adquiescant. Contra est: quidquid ante pugnatum est misericordia fuit; nunc omissis nugis mera homicidia sunt. Nihil habent quo tegantur; ad ictum totis corporibus expositi numquam frustra manum mittunt.

4. Hoc plerique ordinariis paribus et postulaticiis praeferunt. Quidni praeferant? Non galea, non scuto repellitur ferrum. Quo munimenta? Quo artes? Omnia ista mortis morae sunt. Mane leonibus et ursis homines, meridie spectatoribus suis obiciuntur. Interfectores interfecturis iubent obici et victorem in aliam detinent caedem; exitus pugnantium mors est. Ferro et igne res geritur.

5. Haec fiunt dum vacat harena. “Sed latrocinium fecit aliquis, occidit hominem”. Quid ergo? Quia occidit, ille meruit ut hoc pateretur: tu quid meruisti miser ut hoc spectes? “Occide, verbera, ure. Quare tam timide incurrit in ferrum? Quare parum audacter occidit? Quare parum libenter moritur? Plagis agatur in vulnera, mutuos ictus nudis et obviis pectoribus excipiant”. Intermissum est spectaculum: “interim iugulentur homines, ne nihil agatur”. Age, ne hoc quidem intellegitis, mala exempla in eos redundare qui faciunt? Agite dis immortalibus gratias quod eum docetis esse crudelem qui non potest discere.

6. Subducendus populo est tener animus et parum tenax recti: facile transitur ad plures. Socrati et Catoni et Laelio excutere morem suum dissimilis multitudo potuisset: adeo nemo nostrum, qui cum maxime concinnamus ingenium, ferre impetum vitiorum tam magno comitatu venientium potest.

7.Unum exemplum luxuriae aut avaritiae multum mali facit: convictor delicatus paulatim enervat et mollit, vicinus dives cupiditatem inritat, malignus comes quamvis candido et simplici rubiginem suam adfricuit: quid tu accidere his moribus credis in quos publice factus est impetus?

8. Necesse est aut imiteris aut oderis. Utrumque autem devitandum est: neve similis malis fias, quia multi sunt, neve inimicus multis, quia dissimiles sunt. Recede in te ipse quantum potes; cum his versare qui te meliorem facturi sunt, illos admitte quos tu potes facere meliores. Mutuo ista fiunt, et homines dum docent discunt.

9. Non est quod te gloria publicandi ingenii producat in medium, ut recitare istis velis aut disputare; quod facere te vellem, si haberes isti populo idoneam mercem: nemo est qui intellegere te possit. Aliquis fortasse, unus aut alter incidet, et hic ipse formandus tibi erit instituendusque ad intellectum tui. “Cui ergo ista didici?” Non est quod timeas ne operam perdideris, si tibi didicisti.

10. Sed ne soli mihi hodie didicerim, communicabo tecum quae occurrunt mihi egregie dicta circa eundem fere sensum tria, ex quibus unum haec epistula in debitum solvet, duo in antecessum accipe. Democritus ait, “unus mihi pro populo est, et populus pro uno”.

11. Bene et ille, quisquis fuit, ambigitur enim de auctore, cum quaereretur ab illo quo tanta diligentia artis spectaret ad paucissimos perventurae, “satis sunt” inquit “mihi pauci, satis est unus, satis est nullus”. Egregie hoc tertium Epicurus, cum uni ex consortibus studiorum suorum scriberet: “haec” inquit “ego non multis, sed tibi; satis enim magnum alter alteri theatrum sumus”.

12. Ista, mi Lucili, condenda in animum sunt, ut contemnas voluptatem ex plurium adsensione venientem. Multi te laudant: et quid habes cur placeas tibi, si is es quem intellegant multi? Introrsus bona tua spectent. Vale.




Traduzione professionale:


1. Mi chiedi cosa soprattutto dovresti evitare? La folla. Non ti affiderai ancora tranquillamente ad essa. Io certamente ammetterò la mia debolezza: quando rientro in casa non sono mai lo stesso che ne è uscito. Si scompone in parte l’equilibrio che avevo già raggiunto; ritorna qualcuno dei vizi che avevo messo in fuga. Ciò che capita agli ammalati, che una lunga infermità li riduce al punto che non possono mai uscire senza risentirne, questo avviene a noi, i cui animi si stanno riprendendo in seguito ad una lunga malattia. 2. La frequentazione di molte persone è dannosa: ognuno ci suggerisce un vizio o ce lo trasmette o ce lo attacca senza che ce ne accorgiamo. In ogni caso, quanto è maggiore la folla cui ci mescoliamo, tanto più c’è 3 pericolo. Ma non c’è nulla tanto dannoso ai buoni costumi quanto l’abbandonarsi a qualche spettacolo: infatti allora i vizi si insinuano più facilmente attraverso il piacere. 3. Cosa pensi che io intenda dire? Ritorno più avido, più ambizioso, più corrotto, anzi più crudele ed inumano, perché sono stato tra gli uomini. Per caso sono capitato nello spettacolo di mezzogiorno: mi aspettavo scene scherzose e battute di spirito e un po’ di distensione con cui gli occhi si riposassero dallo spettacolo del sangue umano. È tutto l’opposto: tutti i combattimenti precedenti erano atti di compassione, ora, lasciando da parte gli scherzi, sono semplici omicidi. Non hanno nulla con cui proteggersi: esposti ai colpi con tutto il corpo non colpiscono mai a vuoto. 4. La maggior parte della gente preferisce questo alle solite coppie di gladiatori e a quelle richieste. Perché non dovrebbero preferirli? La spada non è trattenuta dall’elmo né dallo scudo. A che le difese? A che l’abilità? Tutto ciò ritarda la morte. Al mattino gli uomini sono esposti ai leoni e agli orsi, a mezzogiorno ai loro spettatori. Ordinano che chi ha ucciso sia esposto a chi lo ucciderà e tengono in serbo il vincitore per un’altra strage; la conclusione per i combattenti è la morte: si procede col ferro e il fuoco. 5. Questo avviene mentre lo spettacolo nell’arena è sospeso. “Ma uno ha commesso una rapina, ha ucciso un uomo”. E allora? Per il fatto che ha ucciso, egli ha meritato di subire questo; tu, infelice, cosa hai meritato per stare a guardare questo spettacolo? Ammazza, frusta, brucia! Perché ha tanta paura a gettarsi sulla spada? Perché ammazza con poco coraggio? Perché ha poca voglia di morire? Lo si frusti per spingerlo a colpire, ricevano colpi reciproci col petto scoperto e indifeso”. Lo spettacolo è sospeso. “Intanto si sgozzi qualcuno, per non stare a far niente”. Via, non capite nemmeno questo, che i cattivi esempi si ritorcono contro chi li dà? Ringraziate gli dèi, che date lezioni di crudeltà a chi non può impararla. 6. Un animo debole e poco tenace nel bene deve essere sottratto alla folla: facilmente ci si lascia trascinare dalla sua parte. I costumi di Socrate, di Catone, di Lelio, avrebbe potuto modificarli una moltitudine diversa da loro: a maggior ragione nessuno di noi, proprio mentre sta formando il suo temperamento, può sopportare l’assalto dei vizi che ci vengono incontro in massa. 7. Un solo esempio di dissolutezza o di avidità fa molto male; un compagno voluttuoso snerva e ci infiacchisce, un vicino ricco eccita la tua bramosia, un compagno malvagio attacca la sua ruggine anche ad un animo candido e semplice, per quanto lo sia: che pensi che avvenga alla moralità che subisce un assalto di massa? 8. È inevitabile imitarli o odiarli. Ma bisogna evitare l’uno e l’altro estremo: non devi diventare come i malvagi, per il fatto che sono molti, né nemico dei molti perché sono diversi da te. Ritirati in te stesso per quanto puoi; frequenta quelli che ti renderanno migliore, accogli quelli che tu puoi rendere migliori. Questi influssi si esercitano reciprocamente, e gli uomini apprendono mentre insegnano. 9. Non c’è motivo per cui il desiderio di far conoscere il tuo ingegno ti spinga ad esibirti in pubblico, a che tu voglia far recitazioni per costoro o discussioni; ti consiglierei di far questo se tu avessi una merce da vendere a questa gente: non c’è nessuno in grado di capirti. Forse ce ne sarà uno, uno o forse due, e questo stesso dovrà essere educato e istruito perché ti capisca. “Ma allora per chi ho appreso tutto ciò?”. Non hai da temere di aver sprecato la tua fatica, se hai imparato per te. 10. Ma perché io oggi non abbia imparato solo a mio profitto, ti parteciperò tre massime eccellenti circa sullo stesso argomento: di queste una te la pagherà questa lettera a saldo di quello che ti debbo, due ricevile in anticipo. Democrito dice: “uno solo vale per me quanto tutto il popolo, e tutto il popolo come uno solo”. 11. Ha detto bene anche quell’altro, chiunque fosse (l’autore infatti è incerto), quando gli chiedevano perché si applicava con tanta diligenza ad una materia che pochissimi avrebbero apprezzato: “a me bastano pochi”, rispose, “basta uno, basta nessuno”. Bene ha detto Epicuro questa terza sentenza, scrivendo ad uno dei suoi amici: “queste cose non le dico a molti, ma a te”, ha detto, “infatti noi due siamo un pubblico sufficiente uno per l’altro”. 12. Questi pensieri, Lucilio mio caro, debbono essere riposti nell’anima, per poter disprezzare il piacere che viene dal consenso della gente. Molti ti lodano: hai qualche motivo per piacere a te stesso, se sei uno che molti capiscono? I tuoi meriti guardino alla tua coscienza. Stammi bene.



TESTO LATINO, TRADUZIONE E COMMENTO:



SENECA LVCILIO SVO SALVTEM

SENECA AL SUO LUCILIO, SALUTE



1. Quid tibi vitandum praecipue existimes quaeris? Turbam. Nondum illi tuto committeris. Ego certe confitebor imbecillitatem meam: numquam mores quos extuli refero; aliquid ex eo quod composui turbatur, aliquid ex iis quae fugavi redit. Quod aegris evenit quos longa inbecillitas usque eo adfecit ut nusquam sine offense proferantur, hoc accidit nobis quorum animi ex longo morbo reficiuntur.

Mi chiedi cosa innanzitutto tu debba ritenere da evitare? La folla. Mai ti sarai mescolato ad essa senza conseguenze. Ammetterò senza esitazione la mia debolezza: mai ritorno ai costumi che ho dismesso; qualcosa di ciò (ex eo) che ho quietato ne è turbato, qualcosa tra le cose che ho allontanato ne è richiamata (letter.: è ritornata). Ciò che accade a quei malati che una lunga degenza ha reso tali (usque eo) da (ut + cong.) non poter essere trasportati senza danno, lo stesso accade a noi le cui personalità si risollevano da una lunga malattia.


2. Inimica est multorum conversatio: nemo non aliquod nobis vitium aut commendat aut inprimit aut nescientibus adlinit. Utique quo maior est populus cui miscemur, hoc periculi plus est. Nihil vero tam damnosum bonis moribus quam in aliquo spectaculo desidere; tunc enim per voluptatem facilius vitia subrepunt.

Dannosa è la frequentazione dei molti: nessuno ci affibbia, o ci attacca o ci contagia con un qualche vizio a nostra insaputa. E soprattutto, quanto più numeroso è il popolo cui ci mescoliamo, maggiore è il pericolo. Nulla invero (è, sott.) tanto dannoso per i buoni costumi, quanto il frequentare un certo tipo di spettacoli; difatti molto più facilmente (facilius) i vizi si insinuano in noi attraverso le blandizie della voluttà (per voluptatem).


3. Quid me existimas dicere? Avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? Immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui. Casu in meridianum spectaculum incidi, lusus expectans et sales et aliquid laxamenti quo hominum oculi ab humano cruore adquiescant. Contra est: quidquid ante pugnatum est misericordia fuit; nunc omissis nugis mera homicidia sunt. Nihil habent quo tegantur; ad ictum totis corporibus expositi numquam frustra manum mittunt.

Cosa credi che stia dicendo? Torno forse a essere (redeo) (soltanto…) più avido, più ambizioso e più lussurioso? Niente affatto, in verità, (divento, sott.) addirittura più crudele e inumano, dopo essere stato tra gli uomini. Per caso mi imbattei in uno spettacolo di mezzogiorno, mentre aspettavo i giochi e le facezie e un qualche addolcimento (aliquid laxamenti) con cui lo sguardo umano si riposi (infine…) dall’umana sofferenza. Ma avviene il contrario: ogni combattimento combattuto prima, era stato (al confronto…) misericordioso (quidquid ante pugnatum est misericordia fuit:lett., qualsiasi cosa che quidquid era stata combattuta prima pugnatum est ante, fu misericordia); ora, messi da parte gli scherzi, sono puri massacri. Non hanno nulla con cui coprirsi; del tutto esposti i corpi ai colpi (lett., esposti con tutti i corpi al colpo), (i gladiatori, sott.) mai dirigono invano i pugni.


4. Hoc plerique ordinariis paribus et postulaticiis praeferunt. Quidni praeferant? Non galea, non scuto repellitur ferrum. Quo munimenta? Quo artes? Omnia ista mortis morae sunt. Mane leonibus et ursis homines, meridie spectatoribus suis obiciuntur. Interfectores interfecturis iubent obici et victorem in aliam detinent caedem; exitus pugnantium mors est. Ferro et igne res geritur.

Questo tipo di spettacolo i più preferiscono alle coppie ordinarie (di lottatori…) e ai gladiatori (postulaticiis). Ma cosa mai (Quidni) possono preferire? Non con l’elmo, non con lo scudo viene respinto il ferro. Con quali baluardi? (lett., Con cosa (sono fatti, sott.) i baluardi?) Con quali arti? Tutte queste cose sono posticipi di morte. Di mattina essi (i combattenti, sott.) sono gettati in pasto ai leoni e agli orsi, a mezzogiorno ai propri spettatori. Gli assassini comandano ai morituri di scontarsi (obici: essere gettati di fonte, contrapposti) e conservano (tengono da parte) il vincitore per un altro massacro; l’esito dei combattenti è la morte. Il tutto è deciso con il ferro e il fuoco.


5. Haec fiunt dum vacat harena. “Sed latrocinium fecit aliquis, occidit hominem”. Quid ergo? Quia occidit, ille meruit ut hoc pateretur: tu quid meruisti miser ut hoc spectes? “Occide, verbera, ure. Quare tam timide incurrit in ferrum? Quare parum audacter occidit? Quare parum libenter moritur? Plagis agatur in vulnera, mutuos ictus nudis et obviis pectoribus excipiant”. Intermissum est spectaculum: “interim iugulentur homines, ne nihil agatur”. Age, ne hoc quidem intellegitis, mala exempla in eos redundare qui faciunt? Agite dis immortalibus gratias quod eum docetis esse crudelem qui non potest discere.

E queste cose avvengono mentre l’arena è vuota...* “Ma qualcuno ha commesso un crimine, ha ucciso un uomo!” Cosa mai quindi? Dal momento che ha ucciso, meritò ora di patire questa (stessa…) sorte! E tu invece, cosa hai meritato, o misero, per dover assistere a questo spettacolo? “Uccidi, colpisci, distruggi. Perché si getta sul ferro così timidamente? Perché uccide con più audacia dei compagni? Perché muore tanto volentieri? Con le percosse sia sospinto contro le ferite (Plagis agatur in vulnera), si diano reciproci colpi sui petti nudi ed esposti.” Lo spettacolo viene sospeso: “Nel frattempo siano sgozzati gli uomini, affinché non si rimanga senza far nulla! (ne nihil agatur)” Orsù, neppure (nequidem) questo capite (ne hoc quidem intellegitis + infinitiva): che i cattivi esempi ricadono su coloro che li hanno compiuti (mala exempla redundare in eos qui faciunt)? Ringraziate gli dei immortali (Agite dis immortalibus gratias) poiché insegnate a essere crudele (docetis esse crudelem)** a colui che (eum qui) non riesce ad apprendere.


* E’ un’espressione amaramente ironica. Seneca si riferisce al fatto che queste uccisioni sono compiute dagli inservienti del circo, quando il combattimento è ormai finito, e sono un modo per sbarazzarsi di quei gladiatori che, pur feriti gravemente, non sono ancora morti. Quindi “ufficialmente”, mentre gli inservienti compiono queste azioni, l’arena è ormai vuota, in quanto priva di combattimenti… Anche i successivi incitamenti della folla, potrebbero, almeno in parte, essere rivolti a costoro, la cui missione è finire i feriti.


** Doceo regge l’accusativo (insegno (a) qc.); quindi: “insegnate a qualcuno (docetis eum) l’essere crudele (esse crudelem), il quale non può apprendere” (qui non potest discere). La frase, molto criptica e aperta a tante interpretazioni, potrebbe riferirsi a Nerone, allievo di Seneca…In generale afferma che la violenza si insegna tanto più facilmente quanto più chi la apprende ha un animo basso, incapace di riflessione e di pensiero. Questa pare essere, del resto, la morale stessa di tutto il brano!


6. Subducendus populo est tener animus et parum tenax recti: facile transitur ad plures. Socrati et Catoni et Laelio excutere morem suum dissimilis multitudo potuisset: adeo nemo nostrum, qui cum maxime concinnamus ingenium, ferre impetum vitiorum tam magno comitatu venientium potest.

Deve essere tenuto lontano dal popolo (colui che abbia…) un animo delicato e poco tenace nella rettitudine. Facilmente egli è convertito a(lla morale de)i più. Una moltitudine dissimile (al suo interno…) avrebbe potuto far vacillare i propri costumi a Socrate, Catone e Lelio: allo stesso modo (adeo) nessuno di noi (nemo nostrum: lett., nessuno dei nostri), che con il massimo sforzo (cum maxime) forgiamo il carattere, potrebbe sopportare l’impeto di un comitato tanto grande di vizi che lo assedino (ferre impetum tam magno comitatu vitiorum venientium).


7.Unum exemplum luxuriae aut avaritiae multum mali facit: convictor delicatus paulatim enervat et mollit, vicinus dives cupiditatem inritat, malignus comes quamvis candido et simplici rubiginem suam adfricuit: quid tu accidere his moribus credis in quos publice factus est impetus?

Un solo esempio di avarizia e lussuria fa molto male: una convivenza voluttuosa a poco a poco infiacchisce e rammollisce, un ricco vicino accende la cupidigia, un compagno malvagio attacca (a te, sott.) per quanto (quamvis) candido e ingenuo la sua pigrizia: tu cosa credi che avvenga con questi costumi attraverso i quali viene esercitata pubblicamente la violenza?


8. Necesse est aut imiteris aut oderis. Utrumque autem devitandum est: neve similis malis fias, quia multi sunt, neve inimicus multis, quia dissimiles sunt. Recede in te ipse quantum potes; cum his versare qui te meliorem facturi sunt, illos admitte quos tu potes facere meliores. Mutuo ista fiunt, et homines dum docent discunt.

È inevitabile che li imiti o che li odi. Ma entrambe (=ciascuno dei due: Utrumque) sono cose da evitare: (ne + cong.; neve… neve) che tu (non) giunga (fias) a simili mali, in quanto sono molti, e che tu (non) diventi (fias) avverso a molti, in quanto sono dissimili tra loro. Ritirati in te stesso quanto puoi: rivolgiti a coloro che ti renderanno migliore, ammetti coloro che tu puoi rendere migliori. Mutualmente queste cose avverranno (fiunt: sorgeranno, si faranno…), e (del resto…) gli uomini mentre insegnano, imparano.


9. Non est quod te gloria publicandi ingenii producat in medium, ut recitare istis velis aut disputare; quod facere te vellem, si haberes isti populo idoneam mercem: nemo est qui intellegere te possit. Aliquis fortasse, unus aut alter incidet, et hic ipse formandus tibi erit instituendusque ad intellectum tui. “Cui ergo ista didici?” Non est quod timeas ne operam perdideris, si tibi didicisti.

Non è opportuno (Non est) che il desiderio di gloria ti trascini nel mezzo della folla (producat te in medium) per rendere pubblico il tuo ingegno (letter., che il desiderio di notorietà (gloria) attraverso lo (letter., dell’) ingegno da rendere pubblico (publicandi ingenii) ti trascini nel mezzo della folla), per recitare o disputare con costoro; la qual cosa (quod) vorrei che tu facessi, se avessi una merce idonea a questa gente; (ma…) nessuno vi è che possa capirti. Forse qualcuno, uno o un altro (potrà, sott.), e quello stesso (hic ipse) dovrai formarlo (formandus tibi erit: letter., sarà a te da formare) e introdurlo al tuo pensiero (ad intellectum tui). “Ma allora a favore di chi (Cui) hai appreso queste cose?” Non devi temere (Non est quod timeas: non è giusto che tu tema) di sprecare la tua fatica (ne operam perdideris: ne (che non) + cong.: esprime l’oggetto del timore), se hai appreso per te stesso.


10. Sed ne soli mihi hodie didicerim, communicabo tecum quae occurrunt mihi egregie dicta circa eundem fere sensum tria, ex quibus unum haec epistula in debitum solvet, duo in antecessum accipe. Democritus ait, “unus mihi pro populo est, et populus pro uno”.

Ma perché fino ad oggi non abbia imparato per me solo, ti comunicherò tre cose che mi capitano (tria quae occurrunt mihi) (dette: dicta…; ma questo termine non è necessario inserirlo nella traduzione) molto a proposito su all’incirca (fere) un unico argomento (circa eundem fere sensum), delle quali (ex quibus: dalle quali) una scioglierà il debito (in debitum solvet) di questa epistola (haec epistula: letter.: dalle/tra le quali cose, questa epistola scioglierà una (…cioè uno di questi pensieri) dal debito), le altre due (duo) prendile come anticipo (in antecessum: in anticipo). * Democrito disse (ait): “Un uomo solo (unus) per me vale quanto il popolo (pro populo est), e il popolo (vale, sott.) quanto un solo uomo”.


* In ognuna delle proprie epistole Seneca ha promesso a Lucilio di inserire un ammaestramento, e qui ne mette addirittura tre; quindi, scherzosamente, dice, due qui saranno come anticipazioni di quanto ti devo nelle prossime epistole… La prima sentenza o ammaestramento è quella, subito seguente, di Epicuro: “il popolo vale un uomo solo e un uomo da solo vale quanto tutto il popolo.” Le altre due seguono immediatamente a essa.


11. Bene et ille, quisquis fuit, ambigitur enim de auctore, cum quaereretur ab illo quo tanta diligentia artis spectaret ad paucissimos perventurae, “satis sunt” inquit “mihi pauci, satis est unus, satis est nullus”. Egregie hoc tertium Epicurus, cum uni ex consortibus studiorum suorum scriberet: “haec” inquit “ego non multis, sed tibi; satis enim magnum alter alteri theatrum sumus”.

Bene disse (inquit: vedi avanti) anche quello, chiunque sia stato (la cosa è incerta (ambigitur) infatti riguardo all’autore), quando gli chiesero (cum quaereretur ab illo: letter., fu preteso da lui) a cosa mirasse (quo spectaret) tanta diligenza di un’arte che sarebbe stata apprezzata (artis perventurae-> che perverrà a…) da pochissimi: “Sono abbastanza per me – disse – pochi, è abbastanza uno, ed è abbastanza anche nessuno.” In terzo luogo (tertium) disse (inquit) egregiamente Epicuro questa cosa, quando scrisse a uno dei suoi compagni di studio (letter., da/tra i compagni dei suoi studi): “Queste cose (le dico, sott.) non a molti, ma a te solo; infatti siamo l’uno all’altro (alter alteri) uno spettacolo sufficientemente grande.”


12. Ista, mi Lucili, condenda in animum sunt, ut contemnas voluptatem ex plurium adsensione venientem. Multi te laudant: et quid habes cur placeas tibi, si is es quem intellegant multi? Introrsus bona tua spectent. Vale.

Queste cose, o mio Lucilio, sono da riporre nell’animo, perché tu possa non tenere da conto il piacere proveniente dall’approvazione dei molti. Molti ti lodano: e cosa mai ne ricavi per piacere a te stesso (cur placeas tibi: perché piaccia a te stesso), se sei uno che (is quem) molti possono capire? I tuoi beni guardino dentro di te (spectent introrsus).

Stammi bene.


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