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Immagine del redattoreAdriano Torricelli

ELOGIO DELLA MITEZZA DEL SOVRANO… (SENECA, De clementia: Libro I; par. XIII/XIV)

ELOGIO DELLA MITEZZA DEL SOVRANO… (SENECA, De clementia: Libro I; par. XIII/XIV)



Un brano del De Clementia di Seneca, nel quale l’autore contrappone il cattivo sovrano (il tiranno), egoista, irragionevole e violento, a quello buono, misericordioso e mite d’animo.

Anche da questo testo, come dal precedente, emerge chiaramente quanto Seneca considerasse essenziali in ogni persona (e tanto più in un sovrano!) qualità come la misericordia, la generosità d’animo, la disponibilità a perdonare, la bontà nei confronti degli altri esseri umani.


Di nuovo quindi, balza all’occhio la somiglianza tra il messaggio morale dello stoicismo di Seneca (ma anche, se è per questo, di Marco Aurelio, l’imperatore stoico…) e quello del Cristianesimo.

Eppure, tale somiglianza non deve essere esagerata!

Proviamo a enumerare alcune delle più vistose differenze esistenti tra essi:

- la misericordia stoica non si fonda su un sentimento religioso bensì sulla Ragione, essendo lo Stoicismo una corrente filosofica;

- la mitezza e l’inclinazione al perdono auspicate da Seneca nel suo testo non sono indefinite ma hanno un limite: quello dell’utilità (si perdona colui che, attraverso il perdono, si può sperare che rinsavisca e torni ad essere quantomeno accettabile per la comunità, non certo un degenerato ormai senza speranza di guarigione);

- una tale attitudine alla bontà non ha come fine un premio ultraterreno, dal momento che per Seneca la vita termina con la morte, bensì semmai il benessere personale di chi perdona, dal momento che l’odio e il risentimento (oltre a non essere spesso produttivi) sono sentimenti che degradano la persona, rendendola infelice, e – non in ultimo – le creano nemici mettendo a repentaglio la sua tranquillità e, soprattutto per un re, la sua stessa esistenza…

- il perdono cristiano non esclude successivamente una punizione divina, peraltro infinita; diversamente, la mitezza nel punire di Seneca non cela un inconfessato desiderio di vendetta, non rimandando ad alcuna vendetta posteriore.


Anche solo da queste considerazioni dovrebbe risultare chiaro come, pur essendo stato effettivamente molto stimato dai cristiani del periodo tardo imperiale (che vedevano in lui un esempio di come, anche con la sola ragione naturale ci si potesse avvicinare – almeno entro certi limiti – alle Verità cristiane, quando addirittura non fantasticavano di una sua segreta conversione alla loro fede… Vedi: https://it.wikipedia.org/wiki/Carteggio_apocrifo_di_Seneca_e_Paolo?fbclid=IwAR1oPgB_wpjGQBTBO_4eTElOFqB4QNYxfjqOxX_Xk1KxDj7sFNhfOwC1vFM#Lettera_XI_(XIV):_Seneca_a_Paolo), non si possa attribuire a Seneca, se non tangenzialmente, un pensiero inconsapevolmente “cristiano”, essendo egli al contrario un pensatore molto legato alle tradizioni filosofiche classiche e “pagane”.


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Consiglio inoltre la lettura integrale del bellissimo e sempre attuale testo del De Clementia, di cui allego il link a una traduzione in italiano: http://www.sentieridellamente.it/files/De-clementia.pdf.



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TESTO LATINO:


XIII.

1. Placido tranquilloque regi fida sunt auxilia sua, ut quibus ad communem salutem utatur, gloriosusque miles (publicae enim securitati se dare operam videt) omnem laborem libens patitur ut parentis custos; at illum acerbum et sanguinarium necesse est graventur stipatores sui. 2. Non potest habere quisquam bonae ac fidae voluntatis ministros, quibus in tormentis ut eculeo et ferramentis ad mortem paratis utitur, quibus non aliter quam bestiis homines obiectat, omnibus reis aerumnosior ac sollicitior, ut qui homines deosque testes facinorum ac vindices timeat, eo perductus, ut non liceat illi mutare mores. Hoc enim inter cetera vel pessimum habet crudelitas: perseverandum est nec ad meliora patet regressus; scelera enim sceleribus tuenda sunt. Quid autem eo infelicius, cui iam esse malo necesse est? 3. O miserabilem illum, sibi certe! nam ceteris misereri eius nefas sit, qui caedibus ac rapinis potentiam exercuit, qui suspecta sibi cuncta reddidit tam externa quam domestica, cum arma metuat, ad arma confugiens, non amicorum fidei credens, non pietati liberorum; qui, ubi circumspexit, quaeque fecit quaeque facturus est, et conscientiam suam plenam sceleribus ac tormentis adaperuit, saepe mortem timet, saepius optat, invisior sibi quam servientibus. 4. E contrario is, cui curae sunt universa, qui alia magis, alia minus tuetur, nullam non rei publicae partem tamquam sui nutrit, inclinatus ad mitiora, etiam, si ex usu est animadvertere, ostendens, quam invitus aspero remedio manus admoveat, in cuius animo nihil hostile, nihil efferum est, qui potentiam suam placide ac salutariter exercet adprobare imperia sua civibus cupiens, felix abunde sibi visus, si fortunam suam publicarit, sermone adfabilis, aditu accessuque facilis, voltu, qui maxime populos demeretur, amabilis, aequis desideriis propensus, etiam iniquis non acerbus, a tota civitate amatur, defenditur, colitur. 5. Eadem de illo homines secreto loquuntur quae palam; tollere filios cupiunt et publicis malis sterilitas indicta recluditur; bene se meriturum de liberis suis quisque non dubitat, quibus tale saeculum ostenderit. Hic princeps suo beneficio tutus nihil praesidiis eget, arma ornamenti causa habet.


XIV.

1. Quod ergo officium eius est? Quod bonorum parentium, qui obiurgare liberos non numquam blande, non numquam minaciter solent, aliquando admonere etiam verberibus. Numquid aliquis sanus filium a prima offensa exheredat? nisi magnae et multae iniuriae patientiam evicerunt, nisi plus est, quod timet, quam quod damnat, non accedit ad decretorium stilum; multa ante temptat, quibus dubiam indolem et peiore iam loco positam revocet; simul deploratum est, ultima experitur. Nemo ad supplicia exigenda pervenit, nisi qui remedia consumpsit. 2. Hoc, quod parenti, etiam principi faciendum est, quem appellavimus Patrem Patriae non adulatione vana adducti. Cetera enim cognomina honori data sunt; Magnos et Felices et Augustos diximus et ambitiosae maiestati quicquid potuimus titulorum congessimus illis hoc tribuentes; Patrem quidem Patriae appellavimus, ut sciret datam sibi potestatem patriam, quae est temperantissima liberis consulens suaque post illos reponens. 3. Tarde sibi pater membra sua abscidat, etiam, cum absciderit, reponere cupiat et in abscidendo gemat cunctatus multum diuque; prope est enim, ut libenter damnet, qui cito; prope est, ut inique puniat, qui nimis.


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Traduzione professionale:


[I; 13] Ad un re pacifico e tranquillo tutti i suoi sostenitori sono fedeli, perché egli se ne serve per il benessere comune, e il soldato orgoglioso (poiché essi si rendono conto di collaborare per la sicurezza pubblica) sopporta volentieri ogni fatica, considerandosi come custode del padre di tutti; ma il re feroce e sanguinario è inevitabile che sia sopportato di mal animo dalle sue guardie. [2] Nessuno può avere dei funzionari di buona volontà e fedeli, se se ne serve per infliggere torture, come ci si serve di un cavalletto o di altri strumenti di morte, se getta loro in pasto uomini come si gettano alle bestie. Egli è più travagliato e più ansioso di qualunque colpevole, poiché teme uomini e dèi quali testimoni e vendicatori dei suoi delitti, essendo giunto a un punto tale da non poter più cambiare costumi. La crudeltà, infatti, tra gli altri guai, ha questo: deve perseverare e non le resta aperta una via per tornare indietro, poiché i delitti vanno difesi con delitti. E che cosa c’è di più infelice per colui per il quale l’essere cattivo è ormai una necessità? [3] Oh come fa compassione, per lo meno a se stesso! Infatti, per gli altri sarebbe cosa empia provar compassione per uno che ha esercitato il suo potere con stragi e rapine, che si è comportato in modo tale da dover sospettare di tutto, sia in casa sia fuori, e temendo le armi, ricorre alle armi, e non crede alla lealtà degli amici né all’affetto dei figli, che, quando si è guardato attorno, per vedere che cosa ha fatto e che cosa farà ed ha messo a nudo la sua coscienza piena di delitti e di tormenti, spesso teme la morte, più spesso se la augura, più odioso a se stesso che a coloro che lo servono. [4] Al contrario, colui che si prende cura di tutto, che protegge alcune cose di più, altre di meno, che dà sostegno a tutte le parti dello Stato, che è incline a provvedimenti più miti e che dimostra, anche quando è utile punire, quanto malvolentieri muova la mano verso rimedi duri, nel cui animo non c’è nessun sentimento di ostilità, nessuna ferocia, che esercita il suo potere in modo pacifico e salutare, desiderando che il suo governo riscuota l’approvazione dei concittadini, e che si considera abbondantemente felice se è riuscito ad estendere a tutti la sua fortuna, che è affabile nel parlare, disponibile ad essere avvicinato, amabile nel viso (che è quanto conta di più per procurarsi il favore popolare), incline a desideri equi, aspro a malapena persino coi malvagi, costui è amato, difeso e venerato da tutti i cittadini. [5] Di lui gli uomini in segreto dicono le stesse cose che in pubblico; desiderano avere dei figli, e si mette fine a quella sterilità che è imposta dai mali pubblici; e tutti sono sicuri che saranno considerati meritevoli dai propri figli per aver fatto loro vedere un’età del genere. Questo principe, protetto dal bene che fa, non ha bisogno di scorte e tiene presso di sé forze armate solo come ornamento.


[I; 14] Qual è, dunque, il suo dovere? È quello dei buoni genitori, che sono soliti rimproverare i figli a volte blandamente, a volte minacciosamente, e talvolta anche ammonirli picchiandoli. Forse che un uomo assennato disereda il figlio alla prima offesa ricevuta? Se molti e gravi torti non hanno vinto completamente la sua pazienza, se ciò che egli teme non è più di ciò che condanna, non si decide a firmare la sentenza definitiva: prima fa molti tentativi per richiamare al dovere un’indole indecisa, anche se è già andata verso il peggio; solo quando ormai dispera, tenta estremi rimedi. Nessuno giunge ad infliggere supplizi, se non dopo aver esaurito tutti i rimedi. [2] Ciò che deve fare il padre, deve farlo anche il principe, al quale non per vana adulazione abbiamo attribuito il nome di Padre della Patria. Gli altri soprannomi, infatti, sono stati dati a titolo d’onore: abbiamo chiamato alcuni Grandi, Felici, Augusti, ed abbiamo coperto di tutti i titoli una maestà ambiziosa, per onorarli; ma abbiamo chiamato il principe Padre della Patria, perché sapesse che gli era stata data la patria potestà, che è la più moderata che ci sia, poiché si prende cura dei figli e mette i propri interessi dopo i loro. [3] Come padre, sia tardo nel decidersi a tagliare una delle proprie membra, e anche dopo averla tagliata, sia desideroso di rimetterla al posto in cui prima si trovava, e gema nel tagliarla, dopo molta e lunga esitazione; infatti, chi condanna in fretta è vicino al condannare volentieri, e chi punisce esageratamente è vicino al punire ingiustamente.



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TESTO LATINO CON TRADUZIONE E COMMENTO:


XIII.

1. Placido tranquilloque regi fida sunt auxilia sua, ut quibus ad communem salutem utatur, gloriosusque miles (publicae enim securitati se dare operam videt) omnem laborem libens patitur ut parentis custos; at illum acerbum et sanguinarium necesse est graventur stipatores sui.

1. A UN SOVRANO MITE E PACIFICO SONO FEDELI LE SUE TRUPPE, E PUÒ USARLE (ut quibus utatur: letter., “affinché quelle/le quali usi”…; il vebo utor, eris… vuole l’ablativo) PER IL BENE COMUNE, E GLORIOSO SOLDATO (INFATTI VEDE DI/SI IMPEGNA A (videt) DARE (TUTTO…) SE STESSO ALLA SICUREZZA PUBBLICA) SOPPORTA TUTTA LA FATICA COME (SE FOSSE..) IL CUSTODE DI (SUO…) PADRE; MENTRE (at) QUELLO CRUDELE E SANGUINARIO È INEVITABILE CHE (ANCHE…) I SUOI UOMINI (LO…) SENTANO COME UN PESO ( = necesse est (ut, sottint.) graventur-> 3 plur. cong. pres. da gravor, aris…: sopporto male; ut + cong. ha qui valore consecutivo, in relazione a “acerbum et sanguinarium”, che pure sono i predicati del complemento oggetto del verbo graventur… Quanto contorta e piena di sottintesi può essere una frase di Seneca!).


2. Non potest habere quisquam bonae ac fidae voluntatis ministros, quibus in tormentis ut eculeo et ferramentis ad mortem paratis utitur, quibus non aliter quam bestiis homines obiectat, omnibus reis aerumnosior ac sollicitior, ut qui homines deosque testes facinorum ac vindices timeat, eo perductus, ut non liceat illi mutare mores.

2. NESSUNO (Non quisquam: lettr., non chiunque) PUÒ AVERE MINISTRI DI FIDA E BUONA VOLONTÀ, SE SONO DISPOSTI/DECISI (quibus utitur paratis in…: letter., i quali usa/se ne avvale preparati a…) A TORMENTI COME IL CAVALLETTO E I FERRI, SE (quibus: letter., a cui) NON DIVERSAMENTE CHE A BESTIE (quibus non aliter quam bestiis; bestiis concorda con quibus, cui si riferisce) GETTA IN PASTO (obiectat) DEGLI UOMINI, PIÙ PREOCCUPATO E INQUIETO DI TUTTI I REI/COLPEVOLI (reis: ablat. di reus,i), COME COLUI CHE TEMA (ut qui timeat) UOMINI E DEI TESTIMONI (testes) DEI (SUOI…) MISFATTI, A TAL PUNTO (eo: avverbio di luogo) PERDUTO CHE (ut + cong. con valore consecutivo) NON GLI SIA LECITO (non liceat illi) MUTARE COSTUMI/ABITUDINI.


Hoc enim inter cetera vel pessimum habet crudelitas: perseverandum est nec ad meliora patet regressus; scelera enim sceleribus tuenda sunt.

LA CRUDELTÀ INFATTI HA QUESTA COSA DAVVERO ( = vel) PESSIMA/ESTREMAMENTE BRUTTA (pessimum) IN MEZZO ALLE ALTRE (inter cetera: letter., tra le rimanenti): È NECESSARIO PERSEVERARE (IN ESSA…) NÉ ESISTE/È DISPONIBILE (patet) UN RITORNO A COSE MIGLIORI; LE SCELLERATEZZE DEVONO ESSERE DIFESE (tuenda sunt) INFATTI DA (ALTRE…) SCELLERATEZZE.


Quid autem eo infelicius, cui iam esse malo necesse est?

COSA INFATTI (VI È…) DI PIÙ TREMENDO (infelicius) PER COLUI, PER IL QUALE ORAMAI (iam) È NECESSARIO ESSER CATTIVO ( = malo=malum; il dativo si giustifica per l’attrazione da “cui”…)?


3. O miserabilem illum, sibi certe! nam ceteris misereri eius nefas sit, qui caedibus ac rapinis potentiam exercuit, qui suspecta sibi cuncta reddidit tam externa quam domestica, cum arma metuat, ad arma confugiens, non amicorum fidei credens, non pietati liberorum; qui, ubi circumspexit, quaeque fecit quaeque facturus est, et conscientiam suam plenam sceleribus ac tormentis adaperuit, saepe mortem timet, saepius optat, invisior sibi quam servientibus.

O MISERABILE QUELLO, NE SIA CERTO (sibi certe: letter., certamente a se stesso)! INFATTI AVERE PIETÀ DEGLI ALTRI SAREBBE NEFASTO A QUESTI (eius nefas sit), IL QUALE CON MASSACRI E RAPINE HA COSTRUITO LA (SUA…) FORZA, IL QUALE RENDE/VEDE TUTTE LE COSE A SÉ SOSPETTE TANTO ESTERNE QUANTO DOMESTICHE, DAL MOMENTO CHE TEME LE ARMI (DEI NEMICI…) MENTRE SI RIFUGIA NELLE (SUE…) ARMI (ad arma confugiens), NON CREDENDO ALLA FEDELTÀ DEGLI AMICI, NON (CREDENDO…) ALL’AFFETTO DEI FIGLI (liberorum); IL QUALE, QUANDO (ubi) ABBIA ANALIZZATO (circumspexit) TUTTE LE COSE CHE (quaeque: neutro plur. di quisque: ciascuno, ogni) HA FATTO E TUTTE LE COSE CHE HA INTENZIONE DI FARE (facturus est: perifrastica attiva futura di facio,is… che esprime intenzione), E ABBIA MESSO IN LUCE (adaperuit: 3^ sing. att. perf. di adepereo,is…: metto in luce) LA SUA COSCIENZA PIENA DI CRIMINI E DI TORMENTI, SPESSO TEME LA MORTE, PIÙ SPESSO LA DESIDERA, PIÙ INVISO A SE STESSO CHE AI SUOI SERVI.


4. E contrario is, cui curae sunt universa, qui alia magis, alia minus tuetur, nullam non rei publicae partem tamquam sui nutrit, inclinatus ad mitiora, etiam, si ex usu est animadvertere, ostendens, quam invitus aspero remedio manus admoveat, in cuius animo nihil hostile, nihil efferum est, qui potentiam suam placide ac salutariter exercet adprobare imperia sua civibus cupiens, felix abunde sibi visus, si fortunam suam publicarit, sermone adfabilis, aditu accessuque facilis, voltu, qui maxime populos demeretur, amabilis, aequis desideriis propensus, etiam iniquis non acerbus, a tota civitate amatur, defenditur, colitur.

AL CONTRARIO (E contrario), COLUI CHE SI PRENDE CURA DI TUTTO (is cui curae sunt universa: letter., colui a cui tutte le cose (universa) sono a cura/cuore), CHE DIFENDE ALCUNE COSE DI PIÙ, ALTRE DI MENO, (CHE…) ALTRETTANTO (tamquam) NUTRE DI SÉ (sui: genit. pronome pers. rifless. di 3^ pers.) OGNI ( = nullam non: letter., non alcuna) PARTE DELLO STATO/REPUBBLICA, INCLINE A COSE PIÙ MITI, ANCHE SE PER NECESSITÀ (ex usu) BISOGNA PUNIRE (est animadvertere: letter., è il punire), MOSTRANDO QUANTO (ostendens quam) DI MALA VOGLIA (invitus) METTA MANO (manus admoveat: letter., le mani (manus è qui accusat. plur. di manus,us: 4 decl.) muova) A UN ASPRO RIMEDIO, NEL CUI ANIMO NULLA DI OSTILE, NULLA DI EFFERATO VI È, CHE ESERCITA TRANQUILLAMENTE E IN MODO SANO LA SUA POTENZA, DESIDERANDO FAR APPREZZARE (cupiens adprobare) i SUOI COMANDI AI (SUOI…) CITTADINI, CHE SIA APPARSO (visus: part. perfetto di videor,eris…: sono visto, appaio) A SE STESSO/CHE SI CONSIDERI ASSAI (abunde) FORTUNATO, QUALORA ABBIA MESSO A DISPOSIZIONE DI TUTTI (publicarit: 3^ sing. att. cong. perfetto di publico,is: rendo pubblico, metto a disposizione di tutti) LA SUA FORTUNA, AFFABILE NEL DISCORRERE (sermone), DISPONIBILE ALL’INCONTRO (aditu) E ALL’AVVICINAMENTO (accessu) (DEI SUDDITI…), AMABILE NEL VOLTO (voltu amabilis), IL QUALE MASSIMAMENTE SI ACCATTIVA (demeretur: 3^ sing. indic. da demereor,eris…: mi concilio) I POPOLI, PROPENSO A DESIDERI/DECISIONI MITI/RAGIONEVOLI, (MA…) NON ACERBO/INCAPACE DI (DECISIONI…) SCOMODE/SVANTAGGIOSE, DALL’INTERA POPOLAZIONE È AMATO, DIFESO, ONORATO.


5. Eadem de illo homines secreto loquuntur quae palam; tollere filios cupiunt et publicis malis sterilitas indicta recluditur; bene se meriturum de liberis suis quisque non dubitat, quibus tale saeculum ostenderit.

LE STESSE COSE (Eadem) SU DI LUI GLI UOMINI DICONO IN PRIVATO (secreto) E PUBBLICAMENTE ( = quae palam: letter., le quali (dicono…) pubblicamente); DESIDERANO CRESCERE I FIGLI (tollere filios) E SI SCHIUDE/HA INIZIO (recluditur) UNA STERILITÀ/DEBOLEZZA IMPOSTA (indicta) AI MALI/ALLE DISGRAZIE; NESSUNO DEI SUOI FIGLI (non de liberis suis quisque) DUBITA CHE GUADAGNERÀ DEI FAVORI (DALLA PROPRIA FEDELTÀ…) ( = dubita bene se meriturum (esse…): letter., dubita di star per guadagnare (meriturum esse: infinito futuro di mereor,eris: guadagno) bene) AI QUALI UNA TALE ETÀ (DELL’ORO…) (UN TALE SOVRANO…) ABBIA MOSTRATO/RIVELATO.

Hic princeps suo beneficio tutus nihil praesidiis eget, arma ornamenti causa habet.

QUESTO PRINCIPE, SICURO (tutus) PER LA SUA BONTÀ (suo beneficio), PER NULLA (nihil: qui in senso avverbiale) MANCA DI DIFESE (praesidiis eget), POSSIEDE ARMI SOLO PER ORNAMENTO (ornamenti causa: letter., a causa di ornamento).


XIV.

1. Quod ergo officium eius est? Quod bonorum parentium, qui obiurgare liberos non numquam blande, non numquam minaciter solent, aliquando admonere etiam verberibus.

DUNQUE QUAL (quod: pronome interrog. neutro da qui, quae, quod) È IL SUO UFFICIO/DOVERE? QUELLO (Quod: pronome relativo neutro da qui, quae, quod) DEI BUONI GENITORI, CHE SOGLIONO CORREGGERE I FIGLI (liberos) A VOLTE (non numquam: letter., non mai) CON LA DOLCEZZA (blande), A VOLTE CON LE MINACCE (minaciter), ALLA FINE/COME ULTIMA ISTANZA (aliquando) ANCHE AMMONIR(LI) CON LE VERGHE.


Numquid aliquis sanus filium a prima offensa exheredat?

FORSECHÉ (Numquid?) QUALCUNO SANO POTREBBE DISEREDARE (exheredat: 3^ cong. att. presente) DALLA PRIMA OFFESA IL FIGLIO?


Nisi magnae et multae iniuriae patientiam evicerunt, nisi plus est, quod timet, quam quod damnat, non accedit ad decretorium stilum; multa ante temptat, quibus dubiam indolem et peiore iam loco positam revocet; simul deploratum est, ultima experitur.

A MENO CHE (Nisi: se non) LE GRANDI E MOLTEPLICI INGIURIE HANNO VINTO/ABBIANO VINTO LA PAZIENZA (DEL PADRE…), A MENO CHE SIA PIÙ CIÒ CHE TEME (plus est quod timet) CHE (quam) CIÒ CHE DISAPPROVA (quod damnat), NON RICORRE A UNA VERA E PROPRIA CONDANNA ( = ad decretorium stilum: letter., alla penna/sentenza decretoria/definitiva); PRIMA TENTA MOLTE COSE, CON LE QUALI MODIFICHI/CERCA DI MODIFICARE L’INDOLE DIFFICILE E ORAMAI (iam) GETTATA (positam) IN UNA CONDIZIONE SEMPRE PIÙ COMPROMESSA (peiore loco: letter., in un luogo/uno stato peggiore (di prima…)); QUANDO (simul: contemporaneamente a…) (LA COSA, LA SITUAZIONE… sottint.) È DIPERATA (deploratum est: 3^ sing. perf. passivo da deploro,as: piango (qualcosa) come perduta), METTE IN PRATICA (experitur) I RIMEDI ESTREMI (ultima).


Nemo ad supplicia exigenda pervenit, nisi qui remedia consumpsit.

NESSUNO GIUNGE A ESIGERE DEI SUPPLIZI (ad suplicia exigenda: letter., ai supplizi da esigere), SE NON COLUI CHE HA ESAURITO I RIMEDI.


2. Hoc, quod parenti, etiam principi faciendum est, quem appellavimus Patrem Patriae non adulatione vana adducti.

QUESTA COSA (Hoc), CHE DEVE ESSERE FATTA (quod… faciendum est) DA UN PADRE, (DEVE ESSER FATTA…) ANCHE DA UN PRINCIPE, IL QUALE CHIAMIAMO PADRE DELLA PATRIA SPINTI NON DA UNA VANA ADULAZIONE.


Cetera enim cognomina honori data sunt; Magnos et Felices et Augustos diximus et ambitiosae maiestati quicquid potuimus titulorum congessimus illis hoc tribuentes; Patrem quidem Patriae appellavimus, ut sciret datam sibi potestatem patriam, quae est temperantissima liberis consulens suaque post illos reponens.

INFATTI GLI ALTRI APPELLATIVI SONO DATI PER ONORARE (honori); “GRANDI” E “FORTUNATI” E “AUGUSTI” (LI… cioè gli imperatori) ABBIAMO CHIAMATI E ABBIAMO ACCUMULATO/MESSO INSIEME (congessimus) QUALSIASI COSA CHE ABBIAMO POTUTO (quicquid potuimus) TRA I TITOLI PER LA (LORO…) ALTA CARICA, TRIBUTANDOLO A LORO; PERÒ (quidem) (LO… cioè il principe) ABBIAMO CHIAMATO PADRE DELLA PATRIA PERCHÉ SAPESSE/RICORDASSE ESSER STATA DATA (datam (esse…)) A LUI (sibi: letter., a se stesso) LA POTESTÀ PATERNA, LA QUALE È ESTREMAMENTE TEMPERATA/EQUILIBRATA/REGOLATA (temperantissima) IN QUANTO PROVVEDE/DEVE PROVVEDERE AI FIGLI (liberis consulens; consulo + dativo: provvedo a…) E IN QUANTO PONE/DEVE PORRE LE SUE CONVENIENZE DOPO QUELLI.


3. Tarde sibi pater membra sua abscidat, etiam, cum absciderit, reponere cupiat et in abscidendo gemat cunctatus multum diuque; prope est enim, ut libenter damnet, qui cito; prope est, ut inique puniat, qui nimis.

A STENTO (Tarde) IL PADRE DA SE STESSO POTREBBE RIMUOVERE (abscidat è un congiuntivo, con valore potenziale… così anche avanti!) LE PROPRIE MEMBRA (cioè, i figli…), ED ANCHE (etiam), QUANDO (LE) AVESSE RIMOSSE, VORREBBE RIMETTERLE AL LORO POSTO ( = reponere) E AVENDO ESITATO (cunctatus è partic. perf. di cunctor,aris…: tento, esito) MOLTO E A LUNGO (multum diuque) GEMEREBBE NEL TAGLIARLE; INFATTI È VICINO (prope est) A CONDANNARE VOLENTIERI (…ut libenter damnet: l’ut + cong. ha qui un valore consecutivo/esplicativo: “è vicino a…”) COLUI CHE RAPIDAMENTE (qui cito) (damnat: “CONDANNA”, sottinteso); È VICINO A PUNIRE INIQUAMENTE COLUI CHE ECCESSIVAMENTE (nimis) (puniit: “PUNISCE”, sottint.)



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(NELL'IMMAGINE, L'OPPOSIZIONE, SECONDO TEORIE NON SENECHIANE, TRA I DUE OPPOSTI STATI DELLA COSCIENZA: L'EGO, OVVERO QUELLO OSTILE E COLPEVOLIZZANTE (SE STESSI E GLI ALTRI) DA UNA PARTE E L'ANIMA, OVVERO QUELLO INCLINE AL PERDONO, ALLA PACE, ALLA BENEVOLENZA DALL'ALTRA !)





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