I ROMANI DISTRUGGONO LA CITTÀ DI ALBA
(Tito Livio: Ab Urbe Condita; I, 29)
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Un brano breve ma di grande poesia tratto dalla Storia di Roma di Tito Livio.
Si è appena svolta la famosa contesa tra Orazi (tre gemelli romani) e Curiazi (tre gemelli albani), vinta dagli Orazi e quindi dai Romani, seppure “in calcio d’angolo”! Proprio in seguito a tale episodio, la guerra tra Romani e Albani si conclude con la sconfitta dei secondi, costretti ora ad abbandonare la loro antica città e a trasferirsi in massa a Roma, di cui peraltro essi occuperanno un nuovo quartiere, divenendo – per così dire – cittadini romani “di serie B”.
Il racconto qui presentato riguarda appunto gli ultimi momenti passati dagli abitanti di Alba nella loro città, nella quale essi sono cresciuti e sono stati educati (…larem ac penates tectaque in quibus natus quisque educatusque esset relinquentes) e che – dice Livio – aveva a quel tempo all'incirca quattrocento anni di vita.
L’azione non si svolge però nella concitazione della violenza, nel clamore della battaglia e della distruzione, ma in una sorta di silenzio attonito e irreale, in un’atmosfera di mestizia rassegnata che ha in sé qualcosa di altrettanto spaventoso quanto le scene di violenza e disperazione usuali in questo tipo di situazioni (ubi intravere portas, non quidem fuit tumultus ille nec pavor qualis captarum esse urbium solet, (…); sed silentium triste ac tacita maestitia ita defixit omnium animos…).
Solo dopo che gli Albani avranno abbandonato obbedienti e in silenzio le loro antiche dimore, solo allora inizierà la spietata e sistematica distruzione della città da parte degli eserciti romani.
Il brano – estremamente potente nella sua relativa semplicità e brevità – mi ha richiamato alla mente la celebre frase di Calgaco, capo dei Germani, nell’Agricola di Tacito:
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Auferre, trucidare, rapere, falsis nominibus imperium, atque, ubi faciunt solitudinem, pacem appellant.
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“Depredare, trucidare, rubare... con falsi nomi essi chiamano il loro “imperio”, e dove fanno il deserto, lo chiamano PACE!”
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Testo latino:
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[29] Inter haec iam praemissi Albam erant equites qui multitudinem traducerent Romam. Legiones deinde ductae ad diruendam urbem. Quae ubi intravere portas, non quidem fuit tumultus ille nec pavor qualis captarum esse urbium solet, cum effractis portis stratisve ariete muris aut arce vi capta clamor hostilis et cursus per urbem armatorum omnia ferro flammaque miscet; sed silentium triste ac tacita maestitia ita defixit omnium animos, ut prae metu obliti quid relinquerent, quid secum ferrent deficiente consilio rogitantesque alii alios, nunc in liminibus starent, nunc errabundi domos suas ultimum illud visuri pervagarentur. Ut vero iam equitum clamor exire iubentium instabat, iam fragor tectorum quae diruebantur ultimis urbis partibus audiebatur pulvisque ex distantibus locis ortus velut nube inducta omnia impleverat, raptim quibus quisque poterat elatis, cum larem ac penates tectaque in quibus natus quisque educatusque esset relinquentes exirent, iam continens agmen migrantium impleverat vias, et conspectus aliorum mutua miseratione integrabat lacrimas, vocesque etiam miserabiles exaudiebantur, mulierum praecipue, cum obsessa ab armatis templa augusta praeterirent ac velut captos relinquerent deos. Egressis urbe Albanis Romanus passim publica privataque omnia tecta adaequat solo, unaque hora quadringentorum annorum opus quibus Alba steterat excidio ac ruinis dedit. Templis tamen deum—ita enim edictum ab rege fuerat—temperatum est.
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Traduzione libera:
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Nel frattempo era già stata mandata ad Alba la cavalleria perché trasferisse tutta la gente a Roma; poi intervenne la fanteria per distruggere la città. Quando i Romani entrarono, non vi furono tumulto e terrore come di solito accade nelle città appena cadute, quando l’ariete ha da poco infranto le porte e abbattuto le mura oppure la cittadella è stata espugnata con la forza; oppure quando il frastuono dei nemici in armi e il loro correre per la città mescola ogni cosa col ferro e col fuoco.
Piuttosto un silenzio desolato e una tacita mestizia avevano a tal punto prostrato gli animi di tutti che per la paura non riuscivano a ricordare ciò che era da lasciare e cosa si doveva portar via; erano irresoluti e si interrogavano gli uni gli altri, ora in piedi sulla soglia di casa, ora vagando per le stanze senza un disegno preciso, per dare un ultimo sguardo.
Ormai i cavalieri li incalzavano gridando che lasciassero le case; ormai si udiva il fragore degli edifici che crollavano nelle parti estreme della città; ormai la polvere, sorta in lontananza, avvolgeva come una nube ogni cosa ricoprendo tutto. Allora ciascuno, in fretta e furia, prese ciò che poteva e uscì lasciando i lari, i penati, le case in cui era nato e cresciuto. E già una fila ininterrotta di persone migranti aveva riempito le vie; la vista degli altri e la vicendevole commiserazione rinnovavano il pianto. Risuonavano grida strazianti, soprattutto di donne, quando passavano davanti ai templi augusti circondati da uomini in armi: era come se abbandonassero i loro dei prigionieri del nemico.
Quando gli Albani furono tutti usciti, i Romani rasero al suolo tutti gli edifici pubblici e privati; in una sola ora ridussero a macerie e polvere il lavoro che aveva innalzato Alba nei quattrocento anni della sua storia. Furono però risparmiati – così infatti aveva ordinato Tullo – i templi.
(Traduzione a cura di Gian Domenico Mazzocato)
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Traduzione spiegata:
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Inter haec iam praemissi Albam erant equites qui multitudinem traducerent Romam. Legiones deinde ductae ad diruendam urbem.
IN MEZZO A TALI COSE/INTANTO (Inter haec) I CAVALIERI ERANO STATI GIÀ MANDATI A ALBA (iam praemissi Albam erant equites) I QUALI PORTASSERO/DOVEVANO PORTARE A ROMA LA MOLTITUDINE/IL POPOLO ALBANO (qui multitudinem traducerent Romam). LE LEGIONI QUINDI (SAREBBERO STATE…) PORTATE ALLA CITTÀ DA DISTRUGGERE/SAREBBERO STATE MANDATE A DISTRUGGERE LA CITTÀ (Legiones deinde ductae ad diruendam urbem).
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Quae ubi intravere portas, non quidem fuit tumultus ille nec pavor qualis captarum esse urbium solet, cum effractis portis stratisve ariete muris aut arce vi capta clamor hostilis et cursus per urbem armatorum omnia ferro flammaque miscet;
LE QUALI (=LE LEGIONI) QUANDO ENTRARONO NELLE PORTE/IN CITTÀ (Quae ubi intravere portas – intravere=intraverunt), NON CERTO/STRANAMENTE (non quidem) VI FU QUEL TUMULTO NÉ (QUELLO…) SPAVENTO (fuit tumultus ille nec pavor) QUALE SUOLE ESSERE DELLE CITTÀ PRESE (qualis captarum esse urbium solet)//STRANAMENTE NON VI FU IL TUMULTO E LA DISPERAZIONE CHE SI HANNO DI SOLITO LE CITTÀ QUANDO VENGONO INVASE (non quidem fuit tumultus ille nec pavor qualis captarum esse urbium solet), QUANDO (cum…), ESSENDO STATE VIOLATE LE PORTE E ESSENDO STATI ABBATTUTI I MURI CON L’ARIETE O LA ROCCA/CITTADELLA ESSENDO STATA PRESA CON LA FORZA (effractis portis stratisve ariete muris aut arce vi capta; stratis: partic. perf. pass. da sterno,is, stravi, stratum, sternere: abbatto), UN OSTILE CLAMORE E UN VAGARE DISORDINATO PER LA CITTÀ DELLE ARMATE MESCOLA/MESCOLANO TUTTE LE COSECOL FERRO E COL FUOCO (cum… clamor hostilis et cursus per urbem armatorum omnia ferro flammaque miscet).
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sed silentium triste ac tacita maestitia ita defixit omnium animos, ut prae metu obliti quid relinquerent, quid secum ferrent deficiente consilio rogitantesque alii alios, nunc in liminibus starent, nunc errabundi domos suas ultimum illud visuri pervagarentur.
MA IL TRISTE SILENZIO E LA TACITA MESTIZIA COSÌ TANTO/A TAL PUNTO (sed silentium triste ac tacita maestitia ita) TOCCÒ GLI ANIMI DI TUTTI (defixit omnium animos), CHE (ut…) AVENDO DIMENTICATO/DIMENTICHI PER LA PAURA (prae metu obliti) COSA LASCIASSERO/DOVEVANO LASCIARE, COSA CON SÉ PORTASSERO/DOVEVANO PORTARE (quid relinquerent, quid secum ferrent) MANCANDO (AD ESSI…) UNA DELIBERAZIONE/CAPACITÀ DI DECIDERE (deficiente consilio), E CHIEDENDO CON INSISTENZA GLI UNI AGLI ALTRI /INTERROGANDOSI DISPERATAMENTE TRA LORO (rogitantesque alii alios), ORA RESTASSERO SULLA SOGLIA (DI CASA…) (ut… nunc in liminibus starent), ORA ERABONDI/ERRANDO PERCORRESSERO LA LORO CASE (nunc errabundi domos suas pervagarentur) PER VEDER(LE) QUELL’ULTIMO /UN’ULTIMA VOLTA (ultimum illud visuri).
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Ut vero iam equitum clamor exire iubentium instabat, iam fragor tectorum quae diruebantur ultimis urbis partibus audiebatur pulvisque ex distantibus locis ortus velut nube inducta omnia impleverat, (…)
COME/QUANDO INVERO ORAMAI IL CLAMORE SALIVA (Ut vero iam clamor instabat) DEI CAVALIERI CHE ORDINAVANO DI USCIRE (equitum exire iubentium), (E…) GIÀ (iam) IL FRAGORE DEI TETTI CHE CROLLAVANO (fragor tectorum quae diruebantur) NELLE ULTIME ZONE DELLA CITTÀ ERA UDITO (ultimis urbis partibus audiebatur) E LA POLVERE RIEMPIVA/SI DIFFONDEVA SU TUTTE LE COSE (pulvisque omnia impleverat) ESSENDO SALITO DA LUOGHI DISTANTI COME UNA NUBE INDOTTA/GENERATA ARTIFICIALMENTE (ex distantibus locis ortus velut nube inducta), (…)
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(…) raptim quibus quisque poterat elatis, cum larem ac penates tectaque in quibus natus quisque educatusque esset relinquentes exirent, iam continens agmen migrantium impleverat vias, et conspectus aliorum mutua miseratione integrabat lacrimas, vocesque etiam miserabiles exaudiebantur, mulierum praecipue, cum obsessa ab armatis templa augusta praeterirent ac velut captos relinquerent deos.
(…) IMPROVVISAMENTE QUELLE COSE ESSENDO STATE PRESE (raptim quibus elatis: ablativo assoluto) (LE QUALI…) CIASCUNO AVEVA POTUTO/FATTO A TEMPO (quisque poterat; è la relativa (con il pronome “i quali” implicito) retta dalla prposiz. precedente), MENTRE (GLI ALBANI…) SE NE ANDAVANO (cum exirent) ABBANDONANDO IL LARE/I LARI E I PENATI E I TETTI (larem ac penates tectaque relinquentes) NEI QUALI CIASCUNO (ERA…) NATO E ERA STATO EDUCATO (in quibus natus quisque educatusque esset), GIÀ UNA COMPATTA COLONNA DI MIGRANTI AVEVA RIEMPITO LE STRADE (iam continens agmen migrantium impleverat vias), E LA VISIONE DEGLI ALTRI PER UNA RECIPROCA COMMISERAZIONE RINNOVAVA LE LACRIME (et conspectus aliorum mutua miseratione integrabat lacrimas), E VOCI/GRIDA ANCHE DISPERATE ERANO UDITE/SI UDIVANO (vocesque etiam miserabiles exaudiebantur), SOPRATTUTTO DELLE DONNE (mulierum praecipue), MENTRE OLTREPASSAVANO (cum relinquerent) I TEMPLI ASSEDIATI DAGLI ARMATI (obsessa ab armatis templa augusta praeterirent) E COME SE (ac velut) LASCIASSERO/ABBANDONASSERO GLI DEI CATTURATI/IN OSTAGGIO (captos deos).
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Egressis urbe Albanis Romanus passim publica privataque omnia tecta adaequat solo, unaque hora quadringentorum annorum opus quibus Alba steterat excidio ac ruinis dedit.
USCITI DALLA CITTÀ GLI ALBANI (Egressis urbe Albanis) (L’ESERCITO…) ROMANO OVUNQUE TUTTE LE COSTRUZIONI PUBBLICHE E PRIVATE RADE AL SUOLO (Romanus passim publica privataque omnia tecta adaequat solo), E IN UN’ORA L’OPERA DI QUATTROCENTO ANNI (unaque hora quadringentorum annorum opus) NEI QUALI ALBA ERA STATA IN PIEDI/ERA DURATA (quibus Alba steterat) CONSEGNÒ ALLA DISTRUZIONE E ALLA ROVINE (excidio ac ruinis dedit).
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Templis tamen deum—ita enim edictum ab rege fuerat—temperatum est.
AI/DEI TEMPLI TUTTAVIA IL DIVINO (Templis tamen deum) – COSÌ INFATTI DAL RE ERA STATO DECISO (ita enim edictum ab rege fuerat) – FU MODERATO/RISPARMIATO (temperatum est).
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