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Immagine del redattoreAdriano Torricelli

Il discorso della scolta: l’inizio dell’«Agamennone» di Eschilo (vv 1-39)

Aggiornamento: 6 giu 2019

Aeschylus, Agamemnon – incipit (vv 1-39)


Pur essendo l’«Agamennone» di Eschilo una delle più celebri e classiche tragedie greche, caratterizzata com’è da atmosfere fosche e da una lugubre attesa di morte, il proemio, nel quale una povera scolta, costretta ormai da un anno a passare le notti accovacciata sul tetto della casa degli Atridi, scorge incredula il segnale della fiaccola che annuncia la presa della città di Troia, ha un che, se non di comico, quantomeno di farsesco e di buffo…

Questo particolarissimo incipit è – a mio avviso – una mirabile dimostrazione di come, anche in un’opera tragica, possa in qualche modo esservi spazio per situazioni e per echi che, seppur molto vagamente e solo in parte, possiamo definire “comici” (ovvero, per usare un’espressione comune, “tragicomici”).


Ma è nella chiusa del suo discorso che più chiaramente si affacciano quei temi propriamente tragici che caratterizzeranno il resto dell’opera, laddove egli afferma:


“Possa io dunque, al suo ritorno, prendere e baciare la mano del mio signore.

Sul resto, silenzio. Un grosso bove ho sulla lingua. Se avesse voce, la casa stessa parlerebbe chiare parole. E io, a chi sa, volentieri parlo; con chi non sa, neanche io so.“ (traduz. di Manara Valgimigli)


Affermazioni, queste, che fanno correre un brivido lungo la schiena dello spettatore, quasi fossero una piccola “doccia fredda” che annuncia, infine, che la tragedia vera e propria sta per iniziare…


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(Oltre alla mia traduzione, assolutamente letterale e poeticamente improponibile, inserisco quella celeberrima, molto libera ma davvero insuperata, di Manara Valgimigli…)



(Osservazioni sul testo di Eschilo: (a) l’autore spostò il luogo della vicenda mitologica, da Micene (città mitica) ad Argo (città ancora reale ai suoi tempi), forse per dare maggiore realismo e attualità alle vicende da lui narrate; (b) nell’opera, la scolta vede il segnale di fuoco che annuncia la presa della città e poco dopo Agamennone è già arrivato ad Argo… come si spiega la cosa? Si trattava, come viene spiegato dopo da Clitemnestra, di un sistema di staffette, per cui l’una vedeva da lontano il segnale dato da un’altra e lo propagava a sua volta, in modo che l’informazione giungesse a una distanza lunghissima in tempi relativamente brevi: è quindi davvero inverosimile il fatto che Agamennone giunga poco dopo che il fuoco è stato visto dalla guardia notturna di Argo: si tratta insomma, di una palese forzatura poetica…)








TESTO GRECO:



Φύλαξ

θεοὺς μὲν αἰτῶ τῶνδ᾽ ἀπαλλαγὴν πόνων

φρουρᾶς ἐτείας μῆκος, ἣν κοιμώμενος

στέγαις Ἀτρειδῶν ἄγκαθεν, κυνὸς δίκην,

ἄστρων κάτοιδα νυκτέρων ὁμήγυριν,

5 - καὶ τοὺς φέροντας χεῖμα καὶ θέρος βροτοῖς

λαμπροὺς δυνάστας, ἐμπρέποντας αἰθέρι

ἀστέρας, ὅταν φθίνωσιν, ἀντολάς τε τῶν.

καὶ νῦν φυλάσσω λαμπάδος τό σύμβολον,

αὐγὴν πυρὸς φέρουσαν ἐκ Τροίας φάτιν

10 - ἁλώσιμόν τε βάξιν: ὧδε γὰρ κρατεῖ

γυναικὸς ἀνδρόβουλον ἐλπίζον κέαρ.

εὖτ᾽ ἂν δὲ νυκτίπλαγκτον ἔνδροσόν τ᾽ ἔχω

εὐνὴν ὀνείροις οὐκ ἐπισκοπουμένην

ἐμήν: φόβος γὰρ ἀνθ᾽ ὕπνου παραστατεῖ,

15 - τὸ μὴ βεβαίως βλέφαρα συμβαλεῖν ὕπνῳ:

ὅταν δ᾽ ἀείδειν ἢ μινύρεσθαι δοκῶ,

ὕπνου τόδ᾽ ἀντίμολπον ἐντέμνων ἄκος,

κλαίω τότ᾽ οἴκου τοῦδε συμφορὰν στένων

οὐχ ὡς τὰ πρόσθ᾽ ἄριστα διαπονουμένου.

20 - νῦν δ᾽ εὐτυχὴς γένοιτ᾽ ἀπαλλαγὴ πόνων

εὐαγγέλου φανέντος ὀρφναίου πυρός.


ὦ χαῖρε λαμπτὴρ νυκτός, ἡμερήσιον

φάος πιφαύσκων καὶ χορῶν κατάστασιν

πολλῶν ἐν Ἄργει, τῆσδε συμφορᾶς χάριν.


25 - ἰοὺ ἰού.

Ἀγαμέμνονος γυναικὶ σημαίνω τορῶς

εὐνῆς ἐπαντείλασαν ὡς τάχος δόμοις

ὀλολυγμὸν εὐφημοῦντα τῇδε λαμπάδι

ἐπορθιάζειν, εἴπερ Ἰλίου πόλις

30 - ἑάλωκεν, ὡς ὁ φρυκτὸς ἀγγέλλων πρέπει:

αὐτός τ᾽ ἔγωγε φροίμιον χορεύσομαι.

τὰ δεσποτῶν γὰρ εὖ πεσόντα θήσομαι

τρὶς ἓξ βαλούσης τῆσδέ μοι φρυκτωρίας.


γένοιτο δ᾽ οὖν μολόντος εὐφιλῆ χέρα

35 - ἄνακτος οἴκων τῇδε βαστάσαι χερί.

τὰ δ᾽ ἄλλα σιγῶ: βοῦς ἐπὶ γλώσσῃ μέγας

βέβηκεν: οἶκος δ᾽ αὐτός, εἰ φθογγὴν λάβοι,

σαφέστατ᾽ ἂν λέξειεν: ὡς ἑκὼν ἐγὼ

μαθοῦσιν αὐδῶ κοὐ μαθοῦσι λήθομαι.



Traduzione di Manara Valgimigli:


La Scolta:

Agli dei chiedo la liberazione da questa fatica, la fine chiedo di questa vigilia che da un anno dura. Qui, sul tetto degli Atridi, accovacciato per terra e con la testa sollevata tra i gomiti a guisa di cane, ho imparato a conoscere le adunate notturne degli astri che brillano padroni luminosi del cielo, e quelli che portano l’inverno e quelli che portano l’estate, e quando nascono e quando tramontano.

E anche ora aspetto il segnale della fiaccola, il raggio del fuoco che rechi la notizia, che gridi la presa della città. Così vuole di una donna il maschio cuore impaziente. E quando la notte, su questo giaciglio battuto dal vento, non visitato dai sogni, - perché la paura mi sta dappresso e non il sonno, la paura che m’impedisce di chiudere al sonno le ciglia, - quando mi provo a cantare un canto o a mormorare una nenia sommessa, allora io gemo e piango la sorte di questa casa che non più come prima buoni reggitori governano.

Bene venga alla fine la liberazione da questa fatica, risplenda una volta fra le tenebre la buona novella del fuoco.

(Improvvisamente, appare la luce della fiaccola all’orizzonte…)

Finalmente! Ti saluto, lampada della notte, che nella notte fai sorgere luce diurna, e danze numerose susciti in Argo a ringraziare gli dei di questa ventura. Evviva, evviva!

Alla donna di Agamennone con chiara voce voglio darne l’annuncio. Si levi ella subito dal letto, e per la reggia lanci il grido, levi il canto di giubilo a questo fuoco. La città di Ilio è caduta. Visibilmente il fuoco lo annunzia. Voglio danzare io stesso il proemio dell’inno. Buon gioco ebbe la sorte del mio signore, e bene anch’io ne avrò: tre volte sei mi hanno gettato i dadi in questa veglia del fuoco. Possa io dunque, al suo ritorno, prendere e baciare la mano del mio signore.

Sul resto, silenzio. Un grosso bove ho sulla lingua. Se avesse voce, la casa stessa parlerebbe chiare parole. E io, a chi sa, volentieri parlo; con chi non sa, neanche io so.


(Versione teatrale inglese: https://www.youtube.com/watch?v=O7sdZQ1BDs0)



TESTO CON COMMENTO GRAMATICALE




Scolta :

Chiedo (αἰτῶ=αἰτέω) agli dei la liberazione da queste fatiche


la fine (μῆκος=letteralm., lunghezza) di una guardia annuale (φρουρᾶς ἐτείας μῆκος), nella quale (ἣν: accusat. del pronome relativo femminile; è un accusativo di relazione, il primo di molti, peraltro…) stando accovacciato (κοιμώμενος)


in alto (ἄγκαθεν) sui tetti degli Atridi (στέγαις Ἀτρειδῶν ), secondo la consuetudine del cane (κυνὸς δίκην-> accus. di relazione),


ho conosciuto/imparato (κάτοιδα) la riunione degli astri notturni,


e quelli portanti (τοὺς φέροντας) l’inverno e l’estate ai mortali,


splendenti signori, risaltanti nel cielo (αἰθέρι: dat. sing. di αἰθήρ, αἰθέρος: cielo)


astri, quando svaniscono (φθίνωσιν: nota che è un congiuntivo!), e le apparizioni loro (ἀντολάς τε τῶν->=ἄστρων: degli astri).


Anche ora sorveglio/attendo (φυλάσσω ) l’immagine della fiaccola,


il bagliore del fuoco che porta (φέρουσαν) la notizia da Troia


e la notizia della presa (ἁλώσιμον: riguardante la presa, l’espugnazione: da ἁλίσκομαι: conquisto); così infatti comanda


di una donna il maschio cuore speranzoso (ἐλπίζον: part. sing. neutro da ἐλπίζω: spero).


Qualora (εὖτ᾽ ἂν + congiunt.) io abbia un mio (ἐμήν) giaciglio (εὐνὴν) notturno e inquieto (=νυκτί-πλαγκτον ) e bagnato di rugiada (ἔνδροσόν τ᾽)



-- infatti la paura al posto del sonno (ἀνθ᾽=ἀντὶ ὕπνου ) mi sta vicina (παραστατεῖ),


il non (τὸ μὴ) piegare le palpebre al sonno (βλέφαρα συμβαλεῖν ὕπνῳ) con sicurezza (βεβαίως) --


qualora (ὅταν + cong.) abbia voglia (δοκῶ: cong. per δοκέω) di cantare o lamentarmi sommessamente,


incidendo/foggiando questo rimedio (ἄκος) contro il sonno (ὕπνου ἀντίμολπον: ἀντίμολπον->che risuona contro: ἀντὶ + μολπάζω: canto; ὕπνου al sonno),


allora piango lamentando (στένων) la sorte di questa casa


non occupantesi delle cose ottime (οὐκ τὰ ἄριστα διαπονουμένου) come innanzi (ὡς πρόσθεν).


Ma giunga (γένοιτο) ora la fortunata liberazione dalle fatiche


apparendo (φανέντος: part. att. aor. genit. da φαίνω: appaio) un fuoco notturno (ὀρφναίου πυρός) nunzio di lieta novella (=εὐαγγέλου; si tratta ovviamente di un genitivo assoluto: φανέντος πυρός…)


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O sii ben venuta (χαῖρε: verbo imperativo di saluto) lampada della notte, diurna


luce annunziante e di cori l’istituzione


molti in Argo, (e annunziante, sott.) la grazia/fortuna di questa sorte.


Evviva, evviva


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Chiaramente (τορῶς) informerò/dirò (letter., informo) alla moglie di Agamennone


(NB: la frase di seguito è un’infinitiva, con verbo ἐπορθιάζειν e per soggetto “la moglie di Agamennone”, ovviamente all’accusativo, ed è retta da σημαίνω !) di levare (ἐπορθιάζειν) dopo essere scesa dal letto (εὐνῆς ἐπαντείλασαν->part. aoristo femmin. sing. acc. da ἐπαν(α)τέλλω: mi levo, sorgo) il prima possibile (ὡς τάχος) nelle case (δόμοις)


un ululo/grido (ὀλολυγμὸν) che echeggi lietamente (εὐφημοῦντα->part. dipendente da ὀλολυγμὸν) a causa di questa lampada (τῇδε λαμπάδι)


…, poiché (εἴπερ: letter., se veramente) la città di Ilio


è stata presa (ἑάλωκεν: 3^ sing. perfetto ind. da ἁλίσκομαι: “sono preso”… si noti che al presente e al futuro questo verbo ha forma medio-passiva, l’aoristo e il perfetto hanno forma attiva), come indica (πρέπει) la fiaccola messaggero (φρυκτὸς ἀγγέλλων);


E io stesso (αὐτός τ᾽ ἔγωγε) eseguirò con danza corale (χορεύσομαι) il proemio (φροίμιον->=προίμιον).


Testimonierò (θήσομαι: futuro medio da τίθημι: pongo) le cose (τὰ) dei padroni che sono andate per il verso giusto (εὖ πεσόντα: letter., “essenti cadute bene”; πεσόντα è partic. plur. neutro aoristo di πίπτω: cado),


tre sei (τρὶς ἓξ: 3 (volte…) 6) per me avendo lanciato (βαλούσης: part. gen. sing. femm. att. dell’aoristo 3° di βάλλω: lancio) questo segnale di fuoco (=τῆσδε φρυκτωρίας) (βαλούσης τῆσδέ μοι φρυκτωρίας: è chiaramente un genitivo assoluto!).*

* Si allude al gioco dei dadi: è come se il segnale della fiaccola equivalesse, per la scolta, ad aver lanciato 3 volte 6 ai dadi!


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Avvenga (γένοιτο) dunque che l’amatissima (εὐφιλῆ: accus. masch./femm. di εὐφιλῆς, 3^ decl.) mano (χέρα: accus. masch. di χέρας=χείρ, χειρός)


del padrone della casa (letter., delle case) che torna (μολόντος: gen. sing. masch. part. aoristo att. di βλώσκω: torno) con questa mano (io…) tocchi (βαστάσαι: inf. aor. att. da βαστάζω: sollevo, tocco; si tratta di un’infinitiva con sogg. sottinteso: la guardia).


Ma le altre cose taccio; un grosso bue sulla (mia…) lingua


è giunto (βέβηκεν: 3^ sing. att. perfetto da βαίνω: vado); la casa stessa, se prendesse/acquisisse voce (φθογγὴν λάβοι->3^ sing. att. aoristo ottativo da λαμβάνω: prendo),


direbbe (ἂν λέξειεν->3^ sing. att. aoristo ottativo da λέγω) cose estremamente chiare; così (ὡς ) volontariamente (ἑκὼν: volente, ovvero: di mia spontanea volontà) io


a coloro che sanno (μαθοῦσιν: part. dativo plur. aoristo da μανθάνω: imparo… quindi: a coloro che hanno imparato, quindi sanno) parlo (αὐδῶ=αὐδάω: dico ad alta voce); e con coloro che non sanno (κοὐ μαθοῦσι=καὶ οὐ μαθοῦσι) ignoro (λήθομαι: presente medio di λήθω, forma arcaica e poetica di λανθάνω).



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