NECESSITÀ DELL’AMICIZIA E DELLA CONDIVISIONE NELLA VITA UMANA (Cicerone, Lelius de amicitia : 86-88)
- Adriano Torricelli
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NECESSITÀ DELL’AMICIZIA E DELLA CONDIVISIONE NELLA VITA UMANA
(Cicerone, Lelius de amicitia : 86-88)
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Verso la fine della sua opera sull’amicizia, Cicerone compie alcune riflessioni sull’amicizia in generale, ovvero sull’amicizia intesa come fenomeno “comune”, che comprende anche declinazioni meno nobili rispetto a quella ideale trattata fin lì, basata – come si è visto – sulla condivisione della virtù da parte degli amici (quegli uomini dabbene o “boni viri” cui Cicerone delegava nella sua visione il compito di un rinnovamento della società!).
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Anche se difatti non tutti amano la virtù né la collocano al primo posto nella vita, tutti in ogni caso concordano (omnes uno ore consentiunt) sul fatto che una vita degna di essere vissuta (liberaliter vivere) non possa assolutamente prescindere dall’esperienza dell’amicizia, ovvero (in questa accezione più generale) della condivisione di esperienze e pensieri con altri esseri umani!
La natura infatti detesta tutto ciò che è solitario (natura solitarium nihil amat), e se anche un dio ci desse in abbondanza tutto ciò di cui abbiamo bisogno ma ci isolasse dal mondo, nessuno sarebbe così duro di cuore da non soffrirne e considerare una tale vita un tormento.
Bellissima l’immagine attribuita a Archita di Taranto (un greco!) di un uomo che, vedendo per un prodigio svelati i misteri e le meraviglie del Cosmo, non trarrebbe comunque da ciò nessun piacere, qualora non avesse qualcuno con cui condividerla.
(Verum ergo illud est quod a Tarentino Archyta, ut opinor, dici solitum nostros senes commemorare audivi ab aliis senibus auditum: 'si quis in caelum ascendisset naturamque mundi et pulchritudinem siderum perspexisset, insuavem illam admirationem ei fore; quae iucundissima fuisset, si aliquem, cui narraret, habuisset.')
L’uomo è dunque, nella sua essenza, un essere sociale!
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Testo originale:
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[86] Quo etiam magis vituperanda est rei maxime necessariae tanta incuria. Una est enim amicitia in rebus humanis, de cuius utilitate omnes uno ore consentiunt. Quamquam a multis virtus ipsa contemnitur et venditatio quaedam atque ostentatio esse dicitur; multi divitias despiciunt, quos parvo contentos tenuis victus cultusque delectat; honores vero, quorum cupiditate quidam inflammantur, quam multi ita contemnunt, ut nihil inanius, nihil esse levius existiment! itemque cetera, quae quibusdam admirabilia videntur, permulti sunt qui pro nihilo putent; de amicitia omnes ad unum idem sentiunt, et ii qui ad rem publicam se contulerunt, et ii qui rerum cognitione doctrinaque delectantur, et ii qui suum negotium gerunt otiosi, postremo ii qui se totos tradiderunt voluptatibus, sine amicitia vitam esse nullam, si modo velint aliqua ex parte liberaliter vivere.
[87] Serpit enim nescio quo modo per omnium vitas amicitia nec ullam aetatis degendae rationem patitur esse expertem sui. Quin etiam si quis asperitate ea est et immanitate naturae, congressus ut hominum fugiat atque oderit, qualem fuisse Athenis Timonem nescio quem accepimus, tamen is pati non possit, ut non anquirat aliquem, apud quem evomat virus acerbitatis suae. Atque hoc maxime iudicaretur, si quid tale posset contingere, ut aliquis nos deus ex hac hominum frequentia tolleret et in solitudine uspiam collocaret atque ibi suppeditans omnium rerum, quas natura desiderat, abundantiam et copiam hominis omnino aspiciendi potestatem eriperet. Quis tam esset ferreus qui eam vitam ferre posset, cuique non auferret fructum voluptatum omnium solitudo?
[88] Verum ergo illud est quod a Tarentino Archyta, ut opinor, dici solitum nostros senes commemorare audivi ab aliis senibus auditum: 'si quis in caelum ascendisset naturamque mundi et pulchritudinem siderum perspexisset, insuavem illam admirationem ei fore; quae iucundissima fuisset, si aliquem, cui narraret, habuisset.' Sic natura solitarium nihil amat semperque ad aliquod tamquam adminiculum adnititur; quod in amicissimo quoque dulcissimum est.
Sed cum tot signis eadem natura declaret, quid velit, anquirat, desideret, tamen obsurdescimus nescio quo modo nec ea, quae ab ea monemur, audimus. Est enim varius et multiplex usus amicitiae, multaeque causae suspicionum offensionumque dantur, quas tum evitare, tum elevare, tum ferre sapientis est; una illa sublevanda offensio est, ut et utilitas in amicitia et fides retineatur: nam et monendi amici saepe sunt et obiurgandi, et haec accipienda amice, cum benevole fiunt.
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Testo tradotto:
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86A maggior ragione, quindi, dobbiamo condannare tale indifferenza nei confronti di una cosa estremamente necessaria. Di tutti i beni della vita umana l'amicizia è l'unico sulla cui utilità gli uomini siano unanimemente d'accordo. È vero che molti disprezzano la virtù e la considerano uno sfoggio, un'ostentazione; molti, che si accontentano di poco e amano un tenore di vita semplice, spregiano invece le ricchezze; e le cariche politiche, il desiderio delle quali infiamma alcuni, quanto sono numerosi quelli che le disprezzano, al punto da considerarle il culmine della vanità e della frivolezza! Allo stesso modo, quel che per gli uni è meraviglioso, per moltissimi non vale niente. Ma sull'amicizia tutti, dal primo all'ultimo, sono d'accordo, da chi fa della politica una ragione di vita a chi si diletta di scienza e filosofia, da chi, al di fuori della vita pubblica, si occupa dei propri affari a chi, infine, si dà anima e corpo ai piaceri. Tutti sanno che la vita non è vita senza amicizia, se almeno in parte si vuole vivere da uomini liberi.
87L'amicizia, infatti, si insinua, non so come, nella vita di tutti e non permette a nessuna esistenza di trascorrere senza di lei. Anzi, se un uomo fosse di indole tanto aspra e selvaggia da rifuggire da ogni contatto umano e da detestarlo - un certo Timone, ad Atene, dicono che fosse così -, non potrebbe tuttavia fare a meno di cercare qualcuno cui vomitare addosso il veleno della sua acredine. Giudicheremmo meglio un tale comportamento se ci capitasse una cosa del genere: un dio ci strappa dal consorzio umano e ci isola in qualche luogo; qui, fornendoci senza risparmio ogni cosa necessaria alla natura umana, ci priva completamente della possibilità di vedere un altro essere umano. Chi sarebbe così duro da sopportare una vita simile? A chi la solitudine non toglierebbe il frutto di ogni piacere?
88Allora è vero quanto ripeteva, se non erro, Archita di Taranto (l'ho sentito ricordare dai nostri vecchi che, a loro volta, riportavano il racconto di altri vecchi): «Se un uomo salisse in cielo e contemplasse la natura dell'universo e la bellezza degli astri, la meraviglia di tale visione non gli darebbe la gioia più intensa, come dovrebbe, ma quasi un dispiacere, perché non avrebbe nessuno cui comunicarla.» Così la natura non ama affatto l'isolamento e cerca sempre di appoggiarsi, per così dire, a un sostegno, che è tanto più dolce quanto più caro è l'amico.
È vero: la natura stessa ci dichiara con tanti segni cosa vuole, cosa ricerca ed esige, ma noi diventiamo sordi, chissà perché, e non diamo ascolto ai suoi avvertimenti. In realtà, i rapporti di amicizia sono vari e complessi e si presentano molti motivi di sospetto e di attrito; saperli ora evitare, ora attenuare, ora sopportare è indice di saggezza. Un motivo di risentimento in particolare non va inasprito, per poter conservare nell'amicizia vantaggi e lealtà: bisogna avvertire e rimproverare spesso gli amici e, con spirito amichevole, bisogna accettare da loro gli stessi rimproveri se sono ispirati dall'affetto.
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Testo latino spiegato:
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[86] Quo etiam magis vituperanda est rei maxime necessariae tanta incuria. Una est enim amicitia in rebus humanis, de cuius utilitate omnes uno ore consentiunt.
Per la qual cosa (Quo) è anche più da vituperare tanta trascuratezza di/su una cosa massimamente necessaria (rei maxime necessariae tanta incuria). Tra le cose umane infatti, unica è l’amicizia nelle cose umane, sull’utilità della quale (de cuius utilitate) tutti acconsentono con una sola voce.
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Quamquam a multis virtus ipsa contemnitur et venditatio quaedam atque ostentatio esse dicitur; multi divitias despiciunt, quos parvo contentos tenuis victus cultusque delectat; honores vero, quorum cupiditate quidam inflammantur, quam multi ita contemnunt, ut nihil inanius, nihil esse levius existiment; itemque cetera, quae quibusdam admirabilia videntur, permulti sunt qui pro nihilo putent; de amicitia omnes ad unum idem sentiunt, et ii qui ad rem publicam se contulerunt, et ii qui rerum cognitione doctrinaque delectantur, et ii qui suum negotium gerunt otiosi, postremo ii qui se totos tradiderunt voluptatibus, sine amicitia vitam esse nullam, si modo velint aliqua ex parte liberaliter vivere.
Sebbene(Quamquam) da molti la virtù stessa sia disprezzata e la ritengano essere (esse dicitur) una certa vanagloria e ostentazione, (sebbene…) molti disprezzino le ricchezze, i quali, contenti con poco (parvo contentos), un modesto vitto e stile di vita appaga, (sebbene…) invero gli onori, il desiderio dei quali alcuni infiamma, in quanti (quam multi: letteralm. “quanto molti”) a tal punto disprezzano (ita contemnunt) che nulla di più inutile, nulla di più irrilevante (nihil inanius, nihil levius) credono che vi sia, e allo stesso modo (itemque) (sebbene…) altre cose, che ad alcuni appaiono mirabili, molti vi sono che le ritengano di alcun valore (pro nihilo putent), sull’amicizia tutti all’unisono (omnes ad unum) la stessa cosa sentono, sia coloro che (et ii qui) hanno dedicato se stessi alla cosa pubblica (ad rem publicam se contulerunt), sia quelli che con la conoscenza e la dottrina delle cose si dilettano (rerum cognitione doctrinaque delectantur), siaquelli che portano avanti oziosi i propri affari (suum negotium gerunt otiosi), e infine (postremo) quelli che si sono dedicati tutti ai piaceri, (tutti sentono...→ omnes sentiunt) che senza amicizia la vita è nulla, qualora almeno in qualche misura (si modo ex aliqua parte) vogliano vivere degnamente (liberaliter).
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[87] Serpit enim nescio quo modo per omnium vitas amicitia nec ullam aetatis degendae rationem patitur esse expertem sui.
L’amicizia serpeggia non so in che modo (nescio quo modo) nelle vite di tutti, né per alcuna ragione (ullam rationem=ulla ratione) di un’età da trascorrere (aetatis degendae)/né in alcuna età della vita (nec ullam aetatis degendae rationem) si sopporta che (l’amicizia…) sia estranea a se stessi/alle proprie vite(patitur esse (amicitiam…) expertem sui).
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Quin etiam si quis asperitate ea est et immanitate naturae, congressus ut hominum fugiat atque oderit, qualem fuisse Athenis Timonem nescio quem accepimus, tamen is pati non possit, ut non anquirat aliquem, apud quem evomat virus acerbitatis suae.
Poiché(Quin) anche se qualcuno è di natura/per propria natura(quis naturae est) di tale asperità e ostilità (ea asperitate et immanitate) che (ut), incontratosi/una volta incontrati (degli uomini…) (congressus), fugga (la presenza…) degli uomini e la odi (ut hominum fugiat et oderit), quale abbiamo saputo (qualem accepimus) essere un certo(esse nescio quem, letteralmente “essere un non so chi”) Timone d’Atene, tuttavia costui non potrebbe sopportare (is pati non possit) di non cercare/trovare qualcuno (ut non anquirat aliquem) su cui riversi/possa riversare il veleno (virus: sing. neutro!) della sua infelicità.
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Atque hoc maxime iudicaretur, si quid tale posset contingere, ut aliquis nos deus ex hac hominum frequentia tolleret et in solitudine uspiam collocaret atque ibi suppeditans omnium rerum, quas natura desiderat, abundantiam et copiam hominis omnino aspiciendi potestatem eriperet.
E questa cosa massimamente deve essere giudicata/valutata: qualora potesse accadere qualcosa di simile (si quid tale posset contingere), (ovvero…) che un qualche Dio ci sollevasse (ut aliquis deus nos tolleret) dalla frequentazione degli uomini e in qualche luogo (uspiam) ci sistemasse in isolamento e lì, fornendoci abbondanza e copia di tutte le cose (suppeditans omnium rerumabundantiam et copiam) che la natura desidera (quas natura desiderat), cancellasse del tutto (omnino) la possibilità di un uomo da vedere/di vedere alcun uomo (hominis aspiciendi potestatem eriperet).
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Quis tam esset ferreus qui eam vitam ferre posset, cuique non auferret fructum voluptatum omnium solitudo?
Chi (in tal caso…) sarebbe tanto rigido/arido il quale potesse portare/da riuscire a portare avanti la vita (Quis tam esset ferreus qui eam vitam ferre posset), e al qualela solitudine non sottrarrebbe del tutto il frutto di tutti i piaceri?
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[88] Verum ergo illud est quod a Tarentino Archyta, ut opinor, dici solitum nostros senes commemorare audivi ab aliis senibus auditum: 'si quis in caelum ascendisset naturamque mundi et pulchritudinem siderum perspexisset, insuavem illam admirationem ei fore; quae iucundissima fuisset, si aliquem, cui narraret, habuisset.'
Vera dunque è quella cosa che (Verum ergo illud est quod) ho udito che i nostri vecchi ricordavano (nostros senes commemorare audivi) essere detta (dici) usuale/usualmente (solitum: è un aggettivo riferito a illud quod, ma in italiano si traduce meglio con un avverbio) dal tarentino Archita, come mi sembra/se ben ricordo (ut opinor), udita da altri vecchi (ab aliis senibus auditum): “Se qualcuno fosse asceso al cielo e avesse ammirato la natura del mondo e la bellezza delle stelle, (dicevano…) che sarebbe stata (fore) per lui quella una visione senza bellezza (insuavem); la quale (visione…) (quae) bellissima sarebbe stata, se avesse avuto qualcuno a cui raccontarla.”
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Sic natura solitarium nihil amat semperque ad aliquod tamquam adminiculum adnititur; quod in amicissimo quoque dulcissimum est.
Così la natura non ama nulla di solitario e sempre si appoggia per così dire (tamquam) a un qualche sostegno; il quale (quod) in un grande amico/nella figura di un grande amico (in amicissimo) è anche dolcissimo.
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Sed cum tot signis eadem natura declaret, quid velit, anquirat, desideret, tamen obsurdescimus nescio quo modo nec ea, quae ab ea monemur, audimus.
Ma, pur la natura stessa dichiarando con tanti segni (cum tot signis eadem natura declaret) cosa voglia, ricerchi e desideri (quid velit, anquirat, desideret), tuttavia facciamo i sordi non so in che modo/in qualche modo (nescio quo modo) né le cose che da essa sono raccomandate (ea, quae ab ea monemur) ascoltiamo.
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Est enim varius et multiplex usus amicitiae, multaeque causae suspicionum offensionumque dantur, quas tum evitare, tum elevare, tum ferre sapientis est;
Infatti è vario il modo di vivere l’amicizia (usus amicitiae), e molte cause di sospetti e di offese (sempre…) si danno, le quali tanto evitare quanto alleggerire quanto sopportare è proprio del sapiente (sapientis est):
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una illa sublevanda offensio est, ut et utilitas in amicitia et fides retineatur: nam et monendi amici saepe sunt et obiurgandi, et haec accipienda amice, cum benevole fiunt.
una sola (una) è quell’offesa/l’offesa da sollevare/evitare (una illa sublevanda offensio est) affinché nell’amicizia e il vantaggio e la fedeltà siano conservati (retineatur): infatti spesso gli amici sono da ammonire e correggere, e queste cose devono essere accolte (accipienda sunt) amichevolmente, quando sorgano/si diano benevolmente/con spirito di benevolenza (cum benevole fiunt).
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