“Le tentazioni di San Gerolamo nel deserto”
(Hieronymi tentationes in eremo; San Gerolamo; Lettera XXII, par. 7)
Un passo delle Lettere di San Gerolamo, in cui l’autore descrive i tormenti e le tentazioni da lui vissuti nel proprio ritiro spirituale nel deserto. E in cui si descrive anche il senso di beatitudine che giunge al termine di tali tormenti, quasi una sorta di “lieto fine” dopo la lunga sequela di autopunizioni e mortificazioni il cui scopo è di allontanare le tentazioni della carne.
“Ma, il Signore mi è testimone: dopo pianti a non finire, dopo aver tenuto a lungo lo sguardo fisso al cielo, mi pareva talvolta di trovarmi fra le schiere degli angeli; allora, esultante di gioia, cantavo: «Ti correremo dietro, attratti dal profumo dei tuoi aromi».”( Et, ut ipse mihi testis est Dominus, post multas lacrymas, post coelo inhaerentes oculos, nonnunquam videbar mihi interesse agminibus Angelorum, et laetus gaudensque cantabam: “Post te in odorem unguentorum tuorum curremus.)
TESTO LATINO:
7. Hieronymi tentationes in eremo. — O quoties ego ipse in eremo constitutus, et in illa vasta solitudine, quae exusta solis ardoribus, horridum Monachis praestat habitaculum, putabam me Romanis interesse deliciis. Sedebam solus, quia amaritudine repletus eram. Horrebant sacco membra deformia, et squalida cutis situm aethiopicae carnis obduxerat. Quotidie lacrymae, quotidie gemitus, et si quando repugnantem somnus imminens oppressisset, nuda humo ossa vix haerentia collidebam. De cibis vero et potu taceo, cum etiam languentes Monachi aqua frigida utantur, et coctum aliquid accepisse, luxuria sit. Ille igitur ego, qui ob gehennae metum, tali me carcere ipse damnaveram, scorpionum tantum socius et ferarum, saepe choris intereram puellarum. Pallebant ora jejuniis, et mens desideriis aestuabat in frigido corpore, et ante hominem sua jam in carne praemortuum, sola libidinum incendia balliebant. Itaque omni auxilio destitutus, ad Jesu jacebam pedes, rigabam lacrymis, crine tergebam; et repugnantem carnem hebdomadarum inedia subjugabam. Non erubesco infelicitatis meae miseriam confiteri, quin potius plango me non esse, quod fuerim. Memini me clamantem, diem crebro junxisse cum nocte, nec prius a pectoris cessasse verberibus, quam rediret, Domino increpante, tranquillitas. Ipsam quoque cellulam meam, quasi cogitationum mearum consciam pertimescebam. Et mihimet iratus et rigidus, solus deserta penetrabam. Sicubi concava vallium, aspera montium, rupium praerupta cernebam, ibi meae orationis locus, ibi illud miserrimae carnis ergastulum; et, ut ipse mihi testis est Dominus, post multas lacrymas, post coelo inhaerentes oculos, nonnunquam videbar mihi interesse agminibus Angelorum, et laetus gaudensque cantabam: Post te in odorem unguentorum tuorum curremus (Cant. 1. 3).
TRADUZIONE LETTERARIA: (http://clarisseremite.xoom.it/virgiliowizard/sites/default/files/sp_wizard/docs/Girolamo%20-%20Lettera%20XXII%20-%20A%20Eustochio.pdf)
7. Quante, quante volte, pur abitando in questo sconfinato deserto bruciato da un sole torrido, in questa squallida dimora offerta ai monaci, credevo davvero d'essere nel mezzo della vita gaudente di Roma! Me ne stavo seduto tutto solo, coll'anima rigonfia d'amarezza. Il mio corpo, sfigurato dal sacco, faceva spavento; la pelle sporca e indurita richiamava l'aspetto squallido dell'epidermide d'un negro. Lacrime e gemiti ogni giorno! Se, nonostante i miei sforzi, il sonno mi assaliva improvviso, ammaccavo le ossa tutte slogate, steso sulla nuda terra. Non ti parlo del cibo e della bevanda: nel deserto anche i malati usano acqua gelida; un piatto caldo è una golosità! Io dunque, sì, proprio io che mi ero da solo inflitto una così dura prigione per timore dell'inferno, senz'altra compagnia che belve e scorpioni, sovente mi pareva di trovarmi tra fanciulle danzanti. Il volto era pallido per il digiuno, eppure, in un corpo or mai avvizzito, il pensiero ardeva di desiderio; dinanzi alla mente d'un uomo già morto nella carne, ribolliva l'incendio della passione. Privo d'aiuto, mi prostravo ai piedi di Gesù, li irroravo di lacrime, li asciugavo con i capelli, domavo la carne ribelle con settimane di digiuni. Non mi vergogno di confessare queste miserie; se mai, piango di non avere più il fervore d'una volta. Ricordo: frequentemente i miei gemiti congiungevano il giorno alla notte; non la smettevo di battermi il petto finché, per le minacce del Maestro, non era tornata la bonaccia. Anche la cella mi faceva spavento, quasi fosse complice dei pensieri impuri; irritato contro me stesso e inflessibile, avanzavo solo nel deserto. Se scoprivo una valle profonda o una montagna scoscesa o rocce a precipizio, là mi rifugiavo a pregare, là stabilivo l'ergastolo per la mia carne martoriata. Ma, il Signore mi è testimone: dopo pianti a non finire, dopo aver tenuto a lungo lo sguardo fisso al cielo, mi pareva talvolta di trovarmi fra le schiere degli angeli; allora, esultante di gioia, cantavo: «Ti correremo dietro, attratti dal profumo dei tuoi aromi».
TRADUZIONE LETTERALE CON NOTE:
O quotiens ego ipse in eremo constitutus, et in illa vasta solitudine, quae exusta solis ardoribus, horridum Monachis praestat habitaculum, putabam me Romanis interesse deliciis. O quante volte io stesso, stabilito nel deserto, e in quella vasta solitudine, che bruciata (exusta part. pass. di exuro,is, ussi, ustum, ere) dagli ardori del sole, fornisce ai monaci un’orrida abitazione, ritenevo di essere in mezzo (me interesse) ai piaceri di Roma. Sedebam solus, quia amaritudine repletus eram. Horrebant sacco membra deformia, et squalida cutis situm aethiopicae carnis obduxerat. Sedevo da solo, perché ero pieno di amarezza. Dolevano orrendamente a causa del sacco le membra (sempre...) più deformi (deformia), e la pelle squallida/trascurata il luogo aveva portato/equiparato alla carne/incarnato etiopico (aethiopicae carnis: due genitivi). Quotidie lacrymae, quotidie gemitus, et si quando repugnantem somnus imminens oppressisset, nuda humo ossa vix haerentia collidebam. Tutto il giorno (Quotidie) lacrime, tutto il giorno gemiti, e allorquando (si quando: se e quando) il sonno imminente (mi...) avesse vinto/vinceva (oppressisset) contro mia voglia ( = (me) repugnantem), le nude ossa a male pena (vix) attaccate/stabili (haerentia: part. da hereo,es, : resto attaccato; riferito a ossa) sbattevo contro il terreno. De cibis vero et potu taceo, cum etiam languentes Monachi aqua frigida utantur, et coctum aliquid accepisse, luxuria sit. Dei cibi e del bere invero tacio, poiché i monaci (cum + cong.) anche languenti/in stato di debolezza usano/bevono acqua fredda, e (poiché...: cum + cong.) l’aver preso qualcosa di cotto è (per loro...) lussuria. Ille igitur ego, qui ob gehennae metum, tali me carcere ipse damnaveram, scorpionum tantum socius et ferarum, saepe choris intereram puellarum. Dunque (igitur) quel me stesso (Ille ego) che per paura dell’inferno (ob gehennae metum) avevo dannato (damnaveram: meglio “aveva dannato”) me/se stesso ( = me) a una tale prigionia, compagno soltanto di scorpioni e fiere, spesso si trovava in mezzo a cori di ragazze. Pallebant ora jejuniis, et mens desideriis aestuabat in frigido corpore, et ante hominem sua jam in carne praemortuum, sola libidinum incendia balliebant. Impallidiva l’aspetto (Pallebant ora; os oris, term. neutro, significa bocca o viso al singolare, aspetto, sembiante al plurale) per i digiuni (jejuniis = ieiuniis), e la mente si agitava nel freddo corpo a causa dei desideri, e davanti a/in un uomo morto anzi tempo (praemortum) nella propria carne, solo gli incendi delle libidine ballavano (balliebant). Itaque omni auxilio destitutus, ad Jesu jacebam pedes, rigabam lacrymis, crine tergebam; et repugnantem carnem hebdomadarum inedia subjugabam. E così privato di ogni aiuto, giacevo ai piedi di Gesù (ad Jesu pedes), rigavo (il suo corpo...) con le lacrime, coi capelli (lo...) tergevo; e soggiogavo la carne riottosa con il digiuno di settimane (hebdomadarum). Non erubesco infelicitatis meae miseriam confiteri, quin potius plango me non esse, quod fuerim. Non arrossisco a confessare la miseria della mia infelice condizione (infelicitatis), quanto piuttosto (quin potius) rimpiango di non essere (più...) (me non esse) ciò che sono stato ((id) quod fuerim). Memini me clamantem, diem crebro junxisse cum nocte, nec prius a pectoris cessasse verberibus, quam rediret, Domino increpante, tranquillitas. Mi ricordo (Memini: verbo al perfetto) che io, lamentandomi/tra i lamenti, univo strettamente il giorno alla notte, né cessavo con le frustate/di frustarmi sul petto (a pectoris: letter., dal petto) prima che (prius quam) la tranquillità ritornasse, poiché Dio (la...) accendeva (in me...). Ipsam quoque cellulam meam, quasi cogitationum mearum consciam pertimescebam. Anche la mia stessa cella, come se (quasi) conscia dei miei pensieri, temevo. Et mihimet iratus et rigidus, solus deserta penetrabam. E con me stesso ( = mihmet; -met è un rafforzativo) irato e severo, da solo penetravo/mi inoltravo in luoghi deserti. Sicubi concava vallium, aspera montium, rupium praerupta cernebam, ibi meae orationis locus, ibi illud miserrimae carnis ergastulum; et, ut ipse mihi testis est Dominus, post multas lacrymas, post coelo inhaerentes oculos, nonnunquam videbar mihi interesse agminibus Angelorum, et laetus gaudensque cantabam: “Post te in odorem unguentorum tuorum curremus” (Cant. 1. 3). Quando (Sicubi) vedevo le concavità delle valli/concave valli (concava vallium: letter., cose/luoghi concavi delle valli), le asperità dei monti/monti scoscesi, i precipizi delle rupi, lì (ubi) (ponevo...) il luogo delle mie orazioni, lì l’ergastolo/la prigione della (mia...) miserissima carne;e, come Dio stesso mi è testimone (ut ipse mihi testis est Dominus), dopo molte lacrime, dopo aver rivolto gli occhi al cielo (post coelo inhaerentes oculos: letter., dopo gli occhi aderenti/che aderivano al cielo), sempre (nonnunquam: cioè non + mai) mi sembrava (videbar mihi) di trovarmi tra schiere di angeli, e lieto e gioioso cantavo: “Dietro a te correremo verso l’odore dei tuoi unguenti/profumi!” (Cant. 1. 3).
댓글