SENECA : NESSUN UOMO È SENZA COLPA (De Ira: par. 28)
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UN’(AMBIZIOSA) INTRODUZIONE AL TESTO DI SENECA:
Presento di seguito un celebre brano di Seneca, senza dubbio il più importante esponente dello stoicismo romano.
In esso l’autore, se da una parte teorizza un’inevitabile condizione di “colpevolezza” (cioè di manchevolezza e fragilità morale) che riguarderebbe l’intero genere umano, dall’altra consiglia e incoraggia il suo lettore e interlocutore (a partire dalla consapevolezza delle proprie debolezze) a porsi con benevolenza di fronte ai propri simili e a non insuperbire, ma a comprenderli senza giudicarli con eccessiva severità.
Rinunciare alla gloria e alla ricchezza (quantomeno non farne una ragione di vita!), rifugiarsi nella propria interiorità, comprendere (e forse amare) i propri simili, essere consapevoli del proprio destino di morte e della propria intrinseca fragilità… Sono questi i valori che Seneca propone nei suoi testi e che, evidentemente, accomunano per molti aspetti il suo messaggio alla visione cristiana della vita! (Ma forse non solo ad essa: non si può difatti escludere che anche tanti altri culti “soterici”, ovvero di salvezza, di origine soprattutto orientale, che si andavano affermando in quegli stessi secoli all’interno del mondo romano, propugnassero idee e atteggiamenti simili a questi… E ciò, peraltro, anche se di tali culti ci è rimasto piuttosto poco.)
Questa innegabile sintonia del resto (che, qualche secolo più tardi, si tradusse nella leggenda di un “Seneca segretamente cristiano”!) non può non far sorgere delle domande. Soprattutto viene da chiedersi, da dove provenga questa affinità di intenti e di sentire, tra un esponente, seppur illuminato, del mondo “pagano” (così come, del resto, tra tanti altri pensatori che vissero più o meno in quegli stessi anni, a cominciare dall’imperatore Marco Aurelio, altro pensatore stoico, forse non meno grande di Seneca!) e la cultura cristiana, che rispetto al paganesimo si pose sempre in netta antitesi.
Mi sembra che la risposta a questa domanda (ammesso che di una spiegazione vi sia bisogno!) sia da trovare nella storia che accomuna tutti questi pensatori e queste correnti culturali: semplicemente, tanto lo Stoicismo romano quanto il Cristianesimo (pur con tutte le differenze del caso, che non sono ovviamente per nulla trascurabili) furono espressione di una situazione oggettiva e di una sensibilità nuove rispetto al passato. La variegata e problematica (nonché instabile) complessità del mondo romano imperiale, determinò infatti un po’ a tutti i livelli sociali e tra tutti i popoli dell’impero un nuovo modo di sentire: un sentimento di angoscia e di paura nei confronti della realtà, avvertita più con apprensione che (e comunque sempre meno) con speranza.
In questa nuova situazione, sociale ed emotiva, si andò gradualmente delineando molto probabilmente anche una visione nuova del mondo e del destino umano: l’uomo pubblico antico cedette sempre più il posto a un uomo privato, ritirato, che cercava in se stesso anziché in una dimensione pubblica e politica le ragioni della propria esistenza. Il precedente culto vitalistico della natura venne via via sostituito da quello dell’interiorità, da un’astratta “spiritualità”. Gradualmente inoltre, si fece sempre più forte il bisogno di un riferimento trascendente, di un “Padre” universale che rendesse a ognuno quel che gli spettava in base ai propri meriti, garantendo così una giustizia che quel mondo caotico e incerto difficilmente sembrava poter garantire.
Tale Padre fu inizialmente identificato soprattutto con l’imperatore romano (consiglio, a questo proposito, di leggere l’illuminante saggio “Marco Aurelio e la fine del mondo antico” di Ernest Renan…) ma in seguito, con l’affievolirsi della speranza nell’instaurazione di uno Stato giusto, capace di provvedere al benessere dei propri sudditi, finì per essere sempre più associato all’idea mistica di un Dio trascendente (il Dio Cristiano, così come le altre divinità di Salvezza che si diffusero nell’impero e di cui sappiamo molto poco!)
Insomma, la storia di Roma imperiale coincise senza dubbio (sin dai primi secoli, e sempre più in quelli successivi) con un’epoca di ansietà e di paura diffuse, e la storia della cultura e della religione nel corso di tali secoli lo dimostrano ampiamente!
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Per tornare al brano di Seneca in esame, ho evidenziato le parti del suo testo che mi sembrano più indicative della presenza di questi temi nonché, allo stesso tempo, di una sintonia tra la visione senechiana e quella cristiana.
A questo proposito, risalta tra tutte una delle ultime frasi (Aliena vitia in oculis habemus, a tergo nostra sunt) che non può non richiamare alla nostra memoria le famose parole del Vangelo: “Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo?” (Luca: 6, 41)
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VERSIONE LATINA:
[XXVIII] [1] Si volumus aequi rerum omnium iudices esse, hoc primum nobis persuadeamus, neminem nostrum esse sine culpa; hinc enim maxima indignatio oritur: 'nihil peccavi' et 'nihil feci'. Immo nihil fateris. Indignamur aliqua admonitione aut coercitione nos castigatos, cum illo ipso tempore peccemus, quod adicimus malefactis adrogantiam et contumaciam. [2] Quis est iste qui se profitetur omnibus legibus innocentem? Ut hoc ita sit, quam angusta innocentia est ad legem bonum esse! Quanto latius officiorum patet quam iuris regula! Quam multa pietas humanitas liberalitas iustitia fides exigunt, quae omnia extra publicas tabulas sunt! [3] Sed ne ad illam quidem artissimam innocentiae formulam praestare nos possumus: alia fecimus, alia cogitavimus, alia optavimus, aliis favimus; in quibusdam innocentes sumus, quia non successit. [4] Hoc cogitantes aequiores simus delinquentibus, credamus obiurgantibus; utique bonis ne irascamur (cui enim non, si bonis quoque), minime dis; non enim illorum , sed lege mortalitatis patimur quidquid incommodi accidit. 'At morbi doloresque incurrunt.' Utique aliquo defungendum est domicilium putre sortitis. [5] Dicetur aliquis male de te locutus: cogita an priorfeceris, cogita de quam multis loquaris. Cogitemus, inquam, alios non facere iniuriam sed reponere, alios pro nobis facere, alios coactos facere, alios ignorantes, etiam eos qui volentes scientesque faciunt ex iniuria nostra non ipsam iniuriam petere: aut dulcedine urbanitatis prolapsus est, aut fecit aliquid, non ut nobis obesset, sed quia consequi ipse non poterat, nisi nos reppulisset; saepe adulatio dum blanditur offendit. [6] Quisquis ad se rettulerit quotiens ipse in suspicionem falsam inciderit, quam multis officiis suis fortuna speciem iniuriae induerit, quam multos post odium amare coeperit, poterit non statim irasci, utique si sibi tacitus ad singula quibus offenditur dixerit 'hoc et ipse commisi'. [7] Sed ubi tam aequum iudicem invenies? Is qui nullius non uxorem concupiscit et satis iustas causas putat amandi quod aliena est, idem uxorem suam aspici non vult; et fidei acerrimus exactor est perfidus, et mendacia persequitur ipse periurus, et litem sibi inferri aegerrime calumniator patitur; pudicitiam servulorum adtemptari non vult qui non pepercit suae. [8] Aliena vitia in oculis habemus, a tergo nostra sunt: inde est quod tempestiva filii convivia pater deterior filio castigat, et nihil alienae luxuriae ignoscit qui nihil suae negavit, et homicidae tyrannus irascitur, et punit furta sacrilegus. Magna pars hominum est quae non peccatis irascitur sed peccantibus. Faciet nos moderatiores respectus nostri, si consuluerimus nos: 'numquid et ipsi aliquid tale commisimus? Numquid sic erravimus? Expeditne nobis ista damnare?'
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Traduzione libera da:
[XXVIII] [1] Se vogliamo essere giudici giusti d’ogni fatto, dobbiamo prima di tutto convincerci che nessuno di noi è senza colpa; poiché lo sdegno maggiore ha origine dalla convinzione di non aver mancato in nulla, di non aver fatto nulla di male. E’ più giusto dire che non confessiamo nulla. Ci sdegniamo di aver subìto un rimprovero o una punizione, e in quel momento stesso pecchiamo, perché aggiungiamo alle nostre cattive azioni l’arroganza e l’ostinazione. [2] Chi è colui che si dichiara innocente di fronte a tutte le leggi? E quand’anche lo fosse, è una ben gretta innocenza il non violare la legge. La norma dei doveri è molto più ampia di quella del codice. Quanti obblighi impone l’affetto, l’umanità, la generosità, la giustizia e la lealtà, obblighi tutti non contemplati nelle tavole della legge. [3] Ma non possiamo garantire di noi neppure sulla base di quel ristrettissimo concetto di innocenza: alcuni reati li abbiamo commessi, altri pensati, altri desiderati, altri incoraggiati; in certi casi siamo innocenti perché le cose non sono andate come avremmo voluto. [4] Riflettiamo su questo, mostriamoci benevoli con chi sbaglia, crediamo a chi ci rimprovera; in ogni caso non prendiamocela con i buoni (altrimenti dovremmo prendercela con tutti), meno che mai con gli dei; non per colpa loro, ma per la nostra condizione di mortali soffriamo i guai che ci capitano. Ma ci colgono malattie e dolori. Chi ha avuto in sorte una dimora marcia, deve pur morire in qualche modo. [5] Ti diranno che qualcuno ha parlato male di te: rifletti se tu non sia stato il primo a farlo, pensa di quanta gente parli male tu. Riflettiamo, dico, che alcuni non fanno un’offesa ma la ricambiano, altri la fanno a nostro vantaggio, altri per costrizione, altri senza accorgersene, e anche coloro che la fanno di proposito e consapevolmente, pur offendendoci, non hanno il fine di offenderci: uno ha sbagliato per il gusto di fare una battuta di spirito, o ha fatto qualcosa non per danneggiarci, ma perché non avrebbe potuto raggiungere il suo scopo se non ci avesse spinto indietro; spesso a offendere è l’adulazione, mentre lusinga. [6] Chiunque ricorderà quante volte egli stesso si sia lasciato andare a un sospetto infondato, a quanti suoi favori il destino abbia dato l’aspetto di un’offesa, quanta gente abbia egli cominciato ad amare dopo averla odiata, potrà non arrabbiarsi subito, soprattutto se in silenzio, a ogni offesa subita, dirà a se stesso: Questo l’ho fatto anch’io. [7] Ma dove troverai un giudice tanto equilibrato? Chi desidera la donna d’altri e pensa di avere sufficienti ragioni di amarla proprio perché è d’altri, non vuole che si rivolga un’occhiata a sua moglie; il perfido è inflessibile nel pretendere lealtà, e proprio lo spergiuro si accanisce contro le bugie, e il falso accusatore non accetta affatto che gli si intenti un processo; chi non ha tenuto conto della propria pudicizia non tollera che si attenti a quella dei suoi schiavetti. [8] Abbiamo sotto gli occhi i difetti altrui, e dietro le spalle i nostri; da ciò deriva che il padre, più corrotto del figlio, rimprovera i suoi prolungati banchetti, e non concede nulla alla lussuria altrui colui che non ha negato niente alla propria, e il tiranno se la prende con l’assassino, e il sacrilego punisce i piccoli furti. C’è una gran parte di uomini che ce l’ha non con i peccati, ma con i peccatori. Un esame di coscienza ci aiuterà a moderarci, se ci chiederemo: Non abbiamo forse fatto anche noi qualcosa di simile? Non abbiamo commesso tale errore? Ci conviene forse condannare questo?
TRADUZIONE LETTERALE E COMMENTO:
[XXVIII] [1] Si volumus aequi rerum omnium iudices esse, hoc primum nobis persuadeamus, neminem nostrum esse sine culpa; hinc enim maxima indignatio oritur: 'nihil peccavi' et 'nihil feci'. Immo nihil fateris.
Se vogliamo essere giudici giusti di tutte le cose, persuadiamo noi stessi di questa prima cosa: d’essere nessuno di noi (nostrum: qui un tale termine non è un aggettivo possessivo (italiano: “nostro”) ma un pronome personale riflessivo al caso genitivo * (“di noi stessi”, “tra noi stessi”)!!!) senza colpa; da qui ( = questa idea) infatti la più grande indignazione sorge: “in nulla ho sbagliato” e “nulla ho fatto (…di male)”. Piuttosto, nulla confessi!
* Sui pronomi personali: https://it.wikibooks.org/wiki/Latino/Pronomi_personali
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Indignamur aliqua admonitione aut coercitione nos castigatos, cum illo ipso tempore peccemus, quod adicimus malefactis adrogantiam et contumaciam.
Ci indigniamo (Indignamur) di essere stati castigati/ripresi ( = nos castigatos (esse, sottint.)) con una qualche ammonizione e costrizione, peccando/anche se pecchiamo in quel medesimo momento, poiché (quod) aggiungiamo (adicimus) alle malefatte l’arroganza e la pervicacia.
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[2] Quis est iste qui se profitetur omnibus legibus innocentem? Ut hoc ita sit, quam angusta innocentia est ad legem bonum esse.
Chi è colui che professa se stesso innocente su/riguardo a tutte le leggi? Anche se ciò fosse vero ( = Ut hoc ita sit: letter., che questo così sia: l’”ut + cong.” ha qui valore concessivo), quanto è angusta/ristretta l’innocenza dell’essere buono di fronte alla legge (ad legem bonum esse)!
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Quanto latius officiorum patet quam iuris regula. Quam multa pietas humanitas liberalitas iustitia fides exigunt, quae omnia extra publicas tabulas sunt.
Quanto più (Quanto latius) si estende (patet) la regola dei doveri (officiorum regula) che la regola della legge! Quante cose (Quam multa: letter., quanto molte cose; multa è neutro plurale) esigono/richiedono la pietà, l’umanità, la gentilezza, la giustizia e la fedeltà (fides), le quali (->riferito a multa: molte cose) tutte sono fuori dalle tavole/leggi pubbliche.
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[3] Sed ne ad illam quidem artissimam innocentiae formulam praestare nos possumus: alia fecimus, alia cogitavimus, alia optavimus, aliis favimus; in quibusdam innocentes sumus, quia non successit.
Ma nemmeno (ne) possiamo certamente/con certezza (quidem) mantenerci/attenerci (praestare nos) a quella ristrettissima/semplicissima (artissima) formula dell’innocenza: alcune cose (alia…) abbiamo fatto, altre (…alia…) abbiamo pensato, altre ancora (…alia…) abbiamo deciso, ad altre ancora (…aliis) siamo stati favorevoli (aliis favimus->perfetto di faveo: favorisco, sono favorevole + ablat.); in alcune cose/frangenti (in quibusdam->da quidam: qualcuno, qualche, ecc.) siamo innocenti, perché (quia) non ha avuto successo (successit) (ciò che volevamo fare…).
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[4] Hoc cogitantes aequiores simus delinquentibus, credamus obiurgantibus; utique bonis ne irascamur (cui enim non, si bonis quoque ), minime dis; non enim illorum , sed lege mortalitatis patimur quidquid incommodi accidit.
Pensando questa cosa, siamo/dobbiamo essere (simus: 1^ plur. presente cong. di sum, es, ecc.) più equi/gentili con coloro che commettono delle mancanze (delinquentibus), crediamo/dobbiamo credere a coloro che riprendono/sgridano (noi); soprattutto non arrabbiamoci (ne irascamur: ne + cong., in una proposiz. reggente, è forma negativa dell’imperativo) con i buoni (con chi ( = cui) infatti non (…ci arrabbieremo, sottint.), se anche coi buoni (…ci arrabbieremo?, sottint.)), minimamente/men che meno con gli dei; infatti non per (la legge) loro (lege illorum), ma per la legge della mortalità/morte soffriamo qualsiasi cosa che (quidquid) accade di scomodo.
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'At morbi doloresque incurrunt'. Utique aliquo defungendum est domicilium putre sortitis.
“Ma le malattie e i dolori giungono!” Senza dubbio (Utique) (noi…) avendo avuto in sorte ( = sortitis: part. passivo perfetto ablativo da sortior, iris, itus, iri: ho in sorte; si tratta di un ablativo assoluto con noi, sottinteso, come soggetto) una casa marcia (putre domicilium), in altro luogo (aliquo) è necessario/inevitabile che fuggiamo/usciamo (da essa…) (cioè: è inevitabile che, essendo la nostra carne una casa putrida/marcia, la si debba presto o tardi abbandonare!)
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[5] Dicetur aliquis male de te locutus: cogita an prior feceris, cogita de quam multis loquaris.
Si dice che qualcuno (Dicetur aliquis: letter., Qualcuno è detto… + infinitiva) ha/abbia parlato (locutus (esse): infinito passato del verbo: loquor,eris, locutus, loqui: parlo) male di te: rifletti se per primo (prior) (non lo…) abbia fatto (tu…).
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Cogitemus, inquam, alios non facere iniuriam sed reponere, alios pro nobis facere, alios coactos facere, alios ignorantes, etiam eos qui volentes scientesque faciunt ex iniuria nostra non ipsam iniuriam petere: aut dulcedine urbanitatis prolapsus est, aut fecit aliquid, non ut nobis obesset, sed quia consequi ipse non poterat, nisi nos reppulisset; saepe adulatio dum blanditur offendit.
Riflettiamo, dico, che alcuni (alios… alios… alios…) non (ci…) fanno un’ingiuria ma (la…) restituiscono, che altri agiscono in nostro favore/per il nostro bene (pro nobis facere), che altri ancora (la…) fanno costretti, che altri (la fanno…) ignoranti/inconsapevoli, e che anche quelli che (etiam eos qui) (la…) fanno volendo e sapendo, dalla ingiuria fatta a noi (ex iniuria nostra) non cercano (petere) (di farci…) una vera e propria ingiuria (ipsam iniuriam: letter., quella stessa ingiuria): (chi ci offende, sogg. sottint.) o è scivolato (prolapus est) per il piacere di (dire...) una spiritosaggine (dulcedine urbanitatis), o ha fatto qualcosa, non per offenderci (non ut nobis obesset), ma perché egli stesso (ipse) non poteva avere successo (consequi) se non (ci…) avesse offesi (reppulisset: 3^ sing. piuccheperf. congiunt. da repello,is, reppuli, repulsum, ere: respingere, offendere); (inoltre/in più si consideri che…) spesso l’adulazione mentre blandisce offende/ferisce.
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[6] Quisquis ad se rettulerit quotiens ipse in suspicionem falsam inciderit, quam multis officiis suis fortuna speciem iniuriae induerit, quam multos post odium amare coeperit, poterit non statim irasci, utique si sibi tacitus ad singula quibus offenditur dixerit 'hoc et ipse commisi'.
Chiunque riporti alla memoria ( = ad se rettulerit: letter., a se stesso sia tornato) quante volte (quotiens) egli stesso (ipse) sia caduto/incorso (inciderit) in un falso sospetto, a quanti (quam multis: letter., a quanto molti) suoi doveri la fortuna/il caso abbia messo addosso (induerit: perf. cong. da induo,is, dui, dutum, ere: vestire) l’immagine (speciem) dell’offesa, quanti (quam multos…) abbia iniziato (egli…) ad amare dopo l’odio, presto (statim) non potrà (poterit: 3^ sing. futuro indicat. di: possum, potes, potui, posse: potere; oppure, ma non qui, 3^ sing. perfetto congiunt. **) (più…) irarsi, soprattutto se, in silenzio (tacitus: letter., silenzioso), abbia detto a se stesso, rispetto alle singole cose (ad singula) dalle quali viene offeso: “Questo anch’io l’ho fatto!”
** Declinazione di Possum, potes, ecc.: https://www.nihilscio.it/Manuali/Lingua%20latina/Verbi/Coniugazione_latino.asp?verbo=posse
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[7] Sed ubi tam aequum iudicem invenies?
Ma dove troverai un giudice tanto giusto?
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Is qui nullius non uxorem concupiscit et satis iustas causas putat amandi quod aliena est, idem uxorem suam aspici non vult; et fidei acerrimus exactor est perfidus, et mendacia persequitur ipse periurus, et litem sibi inferri aegerrime calumniator patitur; pudicitiam servulorum adtemptari non vult qui non pepercit suae.
Colui che (is qui) concupisce la moglie di molti ( = nullius non: letter., non di nessuno; nullius è genit. sing. di nullus) e ritiene causa sufficiente ( = satis iustas causas: letter., sufficientemente giuste ragioni) per amare (amandi) il fatto che (tale moglie…) non è la sua (aliena est), allo stesso tempo (idem) non sopporta che sua moglie venga guardata; e lo spietato esattore della fedeltà (altrui…) (fidei acerrimus exactor) è (a sua volta…) infido, ed egli stesso spergiuro (periurus) persegue i suoi fini (persequitur) con la menzogna, e, calunniatore, con grandissima sofferenza (aegerrime) sopporta che sia instaurata con lui una lite; colui che non ebbe riguardo per (pepercit: perf. ind. da parco,is, peperci, parsum, ere: risparmiare, avere da conto) la sua, non sopporta che venga minata la pudicizia dei (suoi…) servetti.
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[8] Aliena vitia in oculis habemus, a tergo nostra sunt: inde est quod tempestiva filii convivia pater deterior filio castigat, et nihil alienae luxuriae ignoscit qui nihil suae negavit, et homicidae tyrannus irascitur, et punit furta sacrilegus.
I vizi altrui abbiamo nei (nostri…) occhi, i nostri sono/stanno alle nostre spalle (a tergo: letter., dalla schiena): da ciò avviene che (inde est quod) il padre degenere condanna i convivii prolungati del figlio, e nulla perdona dell’altrui lussuria colui che ( = (is, sott.) qui) nulla negò alla sua, e il tiranno si adira dell’omicida, e il sacrilego punisce i furti.
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Magna pars hominum est quae non peccatis irascitur sed peccantibus. Faciet nos moderatiores respectus nostri, si consuluerimus nos:
La gran parte degli uomini (è che…) non si adira per i peccati, ma coi peccatori! L’osservazione ( = respectus->re: indietro; specto: guardo) di noi stessi (nostri: pronome personale riflessivo (vedi sopra *)!) ci renderà più moderati/tolleranti, se avremo riflettuto (consuluerimus: futuro perf. o anteriore da consuluo,is, sului, sultum, ere: riflettere + acc.) su noi stessi:
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'numquid et ipsi aliquid tale commisimus? Numquid sic erravimus? Expeditne nobis ista damnare?'
“Forse che non (Numquid?) anche noi stessi (et ipsi) commettemmo una tale cosa? Forse che non abbiamo errato così? O forse ( …-ne) ci è di qualche utilità (Expedit nobis) condannare queste cose/azioni?”
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