top of page
Cerca
Immagine del redattoreAdriano Torricelli

SENECA SULLA SCHIAVITÙ (Epistole morali a Lucilio: XLVII)

SENECA SULLA SCHIAVITÙ

(Seneca, Epistole morali a Lucilio: XLVII)

.

.

.

.

.

.

.

.

La prima metà di una celebre lettera di Seneca (la quarantasettesima delle Lettere morali a Lucilio) sulla schiavitù, o meglio sul rapporto esistente (e su quello che per Seneca avrebbe dovuto esistere) tra schiavi e padroni.

Vi sono a mio giudizio, due elementi interessanti in questo documento: il fatto che esso ci mostri cosa Seneca pensasse dell’istituzione schiavile, e il fatto che, in alcuni punti, ci fornisca un curioso e vivido quadro di come, nel mondo romano, tale istituzione potesse concretamente articolarsi (ad esempio laddove ci vengono descritte alcune mansioni svolte dagli schiavi domestici (par. 5-8), o laddove (par. 9) si racconta di come a volte essi divenissero più potenti e più ricchi dei loro stessi ex-padroni, rovesciando i precedenti rapporti di forza).

-

Il giudizio di Seneca sulla schiavitù non è peraltro negativo.

Egli infatti, da uomo antico qual era, vede tale istituzione come un qualcosa di necessario, di inevitabile: una condizione in cui alcuni uomini debbono trovarsi per ragioni strutturali al funzionamento della società umana in quanto tale.

Ma se essa come istituzione è inevitabile e quindi non sbagliata, è anche vero che ingiusto e sbagliato è considerare gli schiavi come esseri umani inferiori rispetto ai liberi…

Il messaggio progressista di Seneca dunque, consiste nell’incoraggiare questi ultimi a trattare i primi come loro pari, anziché come esseri loro inferiori da soggiogare e umiliare.

Sta in questa idea (le cui prime manifestazioni risalgono al pensiero epicureo, e in seguito a quello stoico…) l’elemento di progresso morale e civile insito nel discorso di Seneca.

D’altronde, osserva Seneca con mirabile arguzia, come possiamo noi “liberi” disprezzare persone la cui unica colpa è quella di trovarsi in una condizione che ci fa’ orrore, e nella quale noi stessi, prima o poi, potremmo trovarci?

(Contemne nunc eius fortunae hominem in quam transire dum contemnis potes… - E ora disprezza pure l'uomo che si trova in uno stato in cui, proprio mentre lo disprezzi, puoi capitare anche tu.)

.

.

Testo latino:

-

XLVII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM

[1] Libenter ex iis qui a te veniunt cognovi familiariter te cum servis tuis vivere: hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet. 'Servi sunt.' Immo homines. 'Servi sunt ' Immo contubernales. 'Servi sunt.' Immo humiles amici. 'Servi sunt.' Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae. [2] Itaque rideo istos qui turpe existimant cum servo suo cenare: quare, nisi quia superbissima consuetudo cenanti domino stantium servorum turbam circumdedit? Est ille plus quam capit, et ingenti aviditate onerat distentum ventrem ac desuetum iam ventris officio, ut maiore opera omnia egerat quam ingessit. [3] At infelicibus servis movere labra ne in hoc quidem ut loquantur, licet; virga murmur omne compescitur, et ne fortuita quidem verberibus excepta sunt, tussis, sternumenta, singultus; magno malo ulla voce interpellatum silentium luitur; nocte tota ieiuni mutique perstant. [4] Sic fit ut isti de domino loquantur quibus coram domino loqui non licet. At illi quibus non tantum coram dominis sed cum ipsis erat sermo, quorum os non consuebatur, parati erant pro domino porrigere cervicem, periculum imminens in caput suum avertere; in conviviis loquebantur, sed in tormentis tacebant. [5] Deinde eiusdem arrogantiae proverbium iactatur, totidem hostes esse quot servos: non habemus illos hostes sed facimus. Alia interim crudelia, inhumana praetereo, quod ne tamquam hominibus quidem sed tamquam iumentis abutimur. [quod] Cum ad cenandum discubuimus, alius sputa deterget, alius reliquias temulentorum <toro> subditus colligit. [6] Alius pretiosas aves scindit; per pectus et clunes certis ductibus circumferens eruditam manum frusta excutit, infelix, qui huic uni rei vivit, ut altilia decenter secet, nisi quod miserior est qui hoc voluptatis causa docet quam qui necessitatis discit. [7] Alius vini minister in muliebrem modum ornatus cum aetate luctatur: non potest effugere pueritiam, retrahitur, iamque militari habitu glaber retritis pilis aut penitus evulsis tota nocte pervigilat, quam inter ebrietatem domini ac libidinem dividit et in cubiculo vir, in convivio puer est. [8] Alius, cui convivarum censura permissa est, perstat infelix et exspectat quos adulatio et intemperantia aut gulae aut linguae revocet in crastinum. Adice obsonatores quibus dominici palati notitia subtilis est, qui sciunt cuius illum rei sapor excitet, cuius delectet aspectus, cuius novitate nauseabundus erigi possit, quid iam ipsa satietate fastidiat, quid illo die esuriat. Cum his cenare non sustinet et maiestatis suae deminutionem putat ad eandem mensam cum servo suo accedere. Di melius! quot ex istis dominos habet! [9] Stare ante limen Callisti domi num suum vidi et eum qui illi impegerat titulum, qui inter reicula manicipia produxerat, aliis intrantibus excludi. Rettulit illi gratiam servus ille in primam decuriam coniectus, in qua vocem praeco experitur: et ipse illum invicem apologavit, et ipse non iudicavit domo sua dignum. Dominus Callistum vendidit: sed domino quam multa Callistus!

[10] Vis tu cogitare istum quem servum tuum vocas ex isdem seminibus ortum eodem frui caelo, aeque spirare, aeque vivere, aeque mori! tam tu illum videre ingenuum potes quam ille te servum. Variana clade multos splendidissime natos, senatorium per militiam auspicantes gradum, fortuna depressit: alium ex illis pastorem, alium custodem casae fecit. Contemne nunc eius fortunae hominem in quam transire dum contemnis potes.

.

.

Testo tradotto:

-

1 Ho sentito con piacere da persone provenienti da Siracusa che tratti familiarmente i tuoi servi: questo comportamento si confà alla tua saggezza e alla tua istruzione. "Sono schiavi." No, sono uomini. "Sono schiavi". No, vivono nella tua stessa casa. "Sono schiavi". No, umili amici. "Sono schiavi." No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro. 2 Perciò rido di chi giudica disonorevole cenare in compagnia del proprio schiavo; e per quale motivo, poi, se non perché è una consuetudine dettata dalla piú grande superbia che intorno al padrone, mentre mangia, ci sia una turba di servi in piedi? Egli mangia oltre la capacità del suo stomaco e con grande avidità riempie il ventre rigonfio ormai disavvezzo alle sue funzioni: è più affaticato a vomitare il cibo che a ingerirlo. 3 Ma a quegli schiavi infelici non è permesso neppure muovere le labbra per parlare: ogni bisbiglio è represso col bastone e non sfuggono alle percosse neppure i rumori casuali, la tosse, gli starnuti, il singhiozzo: interrompere il silenzio con una parola si sconta a caro prezzo; devono stare tutta la notte in piedi digiuni e zitti. 4 Così accade che costoro, che non possono parlare in presenza del padrone, ne parlino male. Invece quei servi che potevano parlare non solo in presenza del padrone, ma anche col padrone stesso, quelli che non avevano la bocca cucita, erano pronti a offrire la testa per lui e a stornare su di sé un pericolo che lo minacciasse; parlavano durante i banchetti, ma tacevano sotto tortura. 5 Inoltre, viene spesso ripetuto quel proverbio frutto della medesima arroganza: "Tanti nemici, quanti schiavi": loro non ci sono nemici, ce li rendiamo tali noi. Tralascio per ora maltrattamenti crudeli e disumani: abusiamo di loro quasi non fossero uomini, ma bestie. Quando ci mettiamo a tavola, uno deterge gli sputi, un altro, stando sotto il divano, raccoglie gli avanzi dei convitati ubriachi. 6 Uno scalca volatili costosi; muovendo la mano esperta con tratti sicuri attraverso il petto e le cosce, ne stacca piccoli pezzi; poveraccio: vive solo per trinciare il pollame come si conviene; ma è più sventurato chi insegna tutto questo per suo piacere di chi impara per necessità. 7 Un altro, addetto al vino, vestito da donna, lotta con l'età: non può uscire dalla fanciullezza, vi è trattenuto e, pur essendo ormai abile al servizio militare, glabro, con i peli rasati o estirpati alla radice, veglia tutta la notte, dividendola tra l'ubriachezza e la libidine del padrone, e fa da uomo in camera da letto e da servo durante il pranzo. 8 Un altro che ha il còmpito di giudicare i convitati, se ne sta in piedi, sventurato, e guarda quali persone dovranno essere chiamate il giorno dopo perché hanno saputo adulare e sono stati intemperanti nel mangiare o nei discorsi. Ci sono poi quelli che si occupano delle provviste: conoscono esattamente i gusti del padrone e sanno di quale vivanda lo stuzzichi il sapore, di quale gli piaccia l'aspetto, quale piatto insolito possa sollevarlo dalla nausea, quale gli ripugni quando è sazio, cosa desideri mangiare quel giorno. Il padrone, però non sopporta di mangiare con costoro e ritiene una diminuzione della sua dignità sedersi alla stessa tavola con un suo servo. Ma buon dio! quanti padroni ha tra costoro. 9 Ho visto stare davanti alla porta di Callisto il suo ex padrone e mentre gli altri entravano, veniva lasciato fuori proprio lui che gli aveva messo addosso un cartello di vendita e lo aveva presentato tra gli schiavi di scarto. Così quel servo che era stato messo tra i primi dieci in cui il banditore prova la voce, gli rese la pariglia: lo respinse a sua volta e non lo giudicò degno della sua casa. Il padrone vendette Callisto: ma Callisto come ha ripagato il suo padrone! 10 Considera che costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te! Tu puoi vederlo libero, come lui può vederti schiavo. Con la sconfitta di Varo la sorte degradò socialmente molti uomini di nobilissima origine, che attraverso il servizio militare aspiravano al grado di senatori: qualcuno lo fece diventare pastore, qualche altro guardiano di una casa. E ora disprezza pure l'uomo che si trova in uno stato in cui, proprio mentre lo disprezzi, puoi capitare anche tu.

.

.

.

Testi paralleli (con note di traduzione):

-

-

XLVII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM

47. SENECA SALUTA IL SUO LUCILIO

.

[1] Libenter ex iis qui a te veniunt cognovi familiariter te cum servis tuis vivere: hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet. 'Servi sunt.' Immo homines. 'Servi sunt ' Immo contubernales. 'Servi sunt.' Immo humiles amici. 'Servi sunt.' Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae.

.

1 Ho sentito con piacere da persone provenienti da Siracusa [=“ab te”: letteralm.: “da te”, complemento di provenienza] che tratti familiarmente i tuoi servi: questo comportamento si confà [=decet] alla tua saggezza e alla tua istruzione. "Sono schiavi." No [=Immo: per nulla], sono uomini. "Sono schiavi". No, vivono nella tua stessa casa. "Sono schiavi". No, umili amici. "Sono schiavi." No, compagni di schiavitù, se pensi [=si cogitavers: qualora tu abbia pensato/riflettuto che…] che la sorte ha uguale potere su noi e su loro [= “una cosa altrettanto grande/altrettanto (tantumdem) verso entrambi (in utrosque), essere lecito/essere possibile (licere: infinito di licet: è ammesso, è possibile) alla fortuna (fortunae)”].

-

[2] Itaque rideo istos qui turpe existimant cum servo suo cenare: quare, nisi quia superbissima consuetudo cenanti domino stantium servorum turbam circumdedit? Est ille plus quam capit, et ingenti aviditate onerat distentum ventrem ac desuetum iam ventris officio, ut maiore opera omnia egerat quam ingessit.

.

2 Perciò rido di chi giudica disonorevole cenare in compagnia del proprio schiavo; e per quale motivo [=quare?], poi, se non perché [=nisi quia] è una consuetudine dettata dalla piú grande superbia che intorno al padrone, mentre mangia, ci sia una turba di servi in piedi[=superbissima consuetudo circumdedit domino…: una consuetudine presuntuosissima ha circondato il padrone…]? Egli mangia [=est: 3^ sing. indic att. di edo,is…:mangio (edis oppure es, edit oppure est)] oltre la capacità del suo stomaco [=plus quam capit] e con grande avidità riempie il ventre rigonfio [=onerat distentum vemtrem] ormai disavvezzo alle sue funzioni [=iam desuetum ventris officium]: è più affaticato a vomitare il cibo che a ingerirlo [=tantoché (ut) con fatica maggiore tutte le cose vomita (maiore opera omnia egerat) di quanto (quam) (le…) ha ingerite (ingessit)].

-

[3] At infelicibus servis movere labra ne in hoc quidem ut loquantur, licet; virga murmur omne compescitur, et ne fortuita quidem verberibus excepta sunt, tussis, sternumenta, singultus; magno malo ulla voce interpellatum silentium luitur; nocte tota ieiuni mutique perstant.

.

3 Ma a quegli schiavi infelici non è permesso neppure [=ne… quidem licet] muovere le labbra per parlare: ogni bisbiglio è represso col bastone e non sfuggono alle percosse neppure i rumori casuali [=ne… quidem fortuita excepta sunt], la tosse, gli starnuti, il singhiozzo: interrompere il silenzio con una parola [=ulla voce interpellatum silentium: letter.: con qualsiasi voce un silenzio disturbato] si sconta a caro prezzo [=magno malo luitur: è scontato con un grande dolroe]; devono stare tutta la notte in piedi digiuni e zitti.

-

[4] Sic fit ut isti de domino loquantur quibus coram domino loqui non licet. At illi quibus non tantum coram dominis sed cum ipsis erat sermo, quorum os non consuebatur, parati erant pro domino porrigere cervicem, periculum imminens in caput suum avertere; in conviviis loquebantur, sed in tormentis tacebant.

.

4 Così accade che costoro [=Sic fit ut isti…], che non possono parlare in presenza del padrone [=quibus coram domino loqui non licet: letteralm: ai quali davanti al padrobe parlare non è lecito], ne parlino male. Invece quei servi che potevano parlare non solo in presenza del padrone, ma anche col padrone stesso [=quibus non tantum coram dominis (a cui non soltanto davanti ai padroni) sed cum ipsis erat sermo (ma anche davanti a essi era concesso il discorso)], quelli che non avevano la bocca cucita [=quorum os non consuebatur: la bocca dei quali non era cucita], erano pronti a offrire la testa per lui e a stornare su di sé un pericolo che lo minacciasse; parlavano durante i banchetti, ma tacevano sotto tortura.

-

[5] Deinde eiusdem arrogantiae proverbium iactatur, totidem hostes esse quot servos: non habemus illos hostes sed facimus. Alia interim crudelia, inhumana praetereo, quod ne tamquam hominibus quidem sed tamquam iumentis abutimur. [quod] Cum ad cenandum discubuimus, alius sputa deterget, alius reliquias temulentorum <toro> subditus colligit.

.

5 Inoltre, viene spesso ripetuto [=iactatur: è lanciato; è ripetuto] quel proverbio frutto della medesima arroganza: "Tanti [=totidem…] nemici, quanti [=…quot: aggettivi indeclinabili di quantità] schiavi": loro non ci sono nemici, ce li rendiamo tali noi. Tralascio per ora [=interim] maltrattamenti crudeli e disumani [=alia crudelia, inhumana]: [=quod: poiché, il fatto che…; si lega a “tralascio altri trattamenti inumani”] abusiamo di loro [=abutimur (istis…)] quasi non fossero uomini, ma bestie [=ne tamquam hominibus quidem (nemmeno come bestie…) sed tamquam iumentis (ma come animali da soma)]. Quando ci mettiamo a tavola, uno deterge gli sputi, un altro, stando sotto il divano [=subditus toro: posto sotto al lettino], raccoglie gli avanzi dei convitati ubriachi [=reliquias temulentorum colligit].

-

[6] Alius pretiosas aves scindit; per pectus et clunes certis ductibus circumferens eruditam manum frusta excutit, infelix, qui huic uni rei vivit, ut altilia decenter secet, nisi quod miserior est qui hoc voluptatis causa docet quam qui necessitatis discit.

.

6 Uno scalca volatili costosi; muovendo la mano esperta con tratti sicuri [=circumferens eruditam manum certis ductibus] attraverso il petto e le cosce, ne stacca piccoli pezzi; poveraccio: vive solo per trinciare il pollame come si conviene [infelice, che vive per questa sola cosa/ragione (infelix, qui huic uni rei vivit), perché tagli/per tagliare correttamente i polli (ut altilia decenter secet)]; ma è più sventurato [=nisi quod miserior est: “se non che (nisi quod) è più misero”…] chi insegna tutto questo per suo piacere di chi impara per necessità [=qui hoc voluptatis causa docet, quam qui necessitatis (causa…) discit].

-

[7] Alius vini minister in muliebrem modum ornatus cum aetate luctatur: non potest effugere pueritiam, retrahitur, iamque militari habitu glaber retritis pilis aut penitus evulsis tota nocte pervigilat, quam inter ebrietatem domini ac libidinem dividit et in cubiculo vir, in convivio puer est.

.

7 Un altro, addetto al vino, vestito da donna, lotta con l'età: non può uscire dalla fanciullezza, vi è trattenuto [=retrahiturretrahitur] e, pur essendo ormai abile al servizio militare [=iam habitu militari: “pur già con aspetto militare/da soldato” ], glabro, con i peli rasati o estirpati alla radice [=retritis pilis aut penitus (completamente) evulsis], veglia tutta la notte, dividendola tra l'ubriachezza e la libidine del padrone [=quam inter ebrietatem domini ac libidinem dividitquam inter ebrietatem domini ac libidinem dividit: letteralm., la quale (=la notte) tra l’ebbrezza e la libidine del padrone divide], e fa da uomo in camera da letto e da servo durante il pranzo.

-

[8] Alius, cui convivarum censura permissa est, perstat infelix et exspectat quos adulatio et intemperantia aut gulae aut linguae revocet in crastinum. Adice obsonatores quibus dominici palati notitia subtilis est, qui sciunt cuius illum rei sapor excitet, cuius delectet aspectus, cuius novitate nauseabundus erigi possit, quid iam ipsa satietate fastidiat, quid illo die esuriat. Cum his cenare non sustinet et maiestatis suae deminutionem putat ad eandem mensam cum servo suo accedere. Di melius! quot ex istis dominos habet!

.

8 Un altro che ha il còmpito di giudicare i convitati [=cui conviviarum censuram permissa est: letteralm.: al quale è stata affidata la censura/il controllo degli ospiti], se ne sta in piedi, sventurato, e guarda quali persone [=expectat quos: letteralm., “osserva quelli che…”] dovranno essere chiamate il giorno dopodovranno essere chiamate il giorno dopo [=revocet in crastinum: letteral., chiamerà (indic. futuro)//faccia chiamare (congiuntivo pres.) il giorno dopo(in crastinum)] perché hanno saputo adulare e sono stati intemperanti nel mangiare o nei discorsi [il soggetto di revocet è adulatio e intemperantia aut gulae aut linguae; quindi: “i quali (quos…) l’adulazione (del padrone…) o l’intemperanza di gola o di lingua chiamerà/farà chiamare il giorno dopo]. Ci sono poi [=Adice: letteralm., “Aggiungi…”] quelli che si occupano delle provviste [=obsonatores: “compratori di cibo”]: conoscono esattamente i gusti del padrone [=quibus dominici palati notitia subtilis est: letteralm., “ai quali è/che hanno una conoscenza sottile del palato del padrone”] e sanno di quale vivanda lo stuzzichi il sapore [=qui sciunt cuius illum rei sapor excitet: letteralm., “che sanno di quale cosa/cibo (cuius rei: cuius è qui pronome interrogat,) il sapore lo ecciti/stuzzichi”], di quale gli piaccia l'aspetto [=cuius (rei…) delectet aspectus], quale piatto insolito possa sollevarlo dalla nausea [=cuius (rei…) novitate nauseabundus erigi possit: letterlm., “con la novità di quale (cibo…) (cuius rei novitate), ormai nauseato (nauseabundus), possa essere eretto/risvegliato”], quale gli ripugni quando è sazio [=quid iam ipsa satietate fastidiat: letteralm., “cosa oramai, per la stessa sazietà, (lo…) infastidisca], cosa desideri mangiare quel giorno [=illo die]. Il padrone, però non sopporta di mangiare con costoro e ritiene una diminuzione della sua dignità sedersi alla stessa tavola con un suo servo. Ma buon dio [=Di melius]! quanti [=quot: aggettivo indeclinabile, indica sempre la quantità numerica: “quanti/e” (di numero), non la grandezza (quantus)] padroni ha tra costoro.

-

[9] Stare ante limen Callisti dominum suum vidi et eum qui illi impegerat titulum, qui inter reicula manicipia produxerat, aliis intrantibus excludi. Rettulit illi gratiam servus ille in primam decuriam coniectus, in qua vocem praeco experitur: et ipse illum invicem apologavit, et ipse non iudicavit domo sua dignum. Dominus Callistum vendidit: sed domino quam multa Callistus!

.

9 Ho visto stare davanti alla porta di Callisto il suo ex padrone e mentre gli altri entravano, veniva lasciato fuori proprio lui [=eum vidi aliis intrantibus excludi: letteralm., “quelli vidi essere escluso/tenuto fuori, mentre gli altri entravano] che gli aveva messo addosso un cartello di vendita [=(eum…) qui impegerat titulum] e lo aveva presentato tra gli schiavi di scarto [=qui inter reicula (di scarto) mancipia (acquisti/schiavi) produxerat]. Così quel servo che era stato messo tra i primi dieci in cui [=in qua->riferito a “decuriam”, quindi letteralm., “nella quale (decuria)”] il banditore prova la voce, gli rese la pariglia [=Rettulit illi gratiam]: lo respinse a sua volta [=invicem] e non lo giudicò degno della sua casa. Il padrone vendette Callisto: ma Callisto come ha ripagato il suo padrone [=sed domino quam multa Callistus: letteralm., “ma al padrone quante cose/quanti dispiaceri (quam multa: “quanto molte cose”, espressione tipica di Seneca) Callisto (diede indietro…)”]!

-

[10] Vis tu cogitare istum quem servum tuum vocas ex isdem seminibus ortum [esse], eodem frui caelo, aeque spirare, aeque vivere, aeque mori! tam tu illum videre ingenuum potes quam ille te servum. Variana clade multos splendidissime natos, senatorium per militiam auspicantes gradum, fortuna depressit: alium ex illis pastorem, alium custodem casae fecit. Contemne nunc eius fortunae hominem in quam transire dum contemnis potes.

.

10 Considera [=Vis tu cogitare…?: letteralm., “Vuoi riflettere che…?”] che costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te [=…cogitare istum …ortum esse, …frui, … spirare, …vivere, … mori?]! Tu puoi vederlo libero, come lui può vederti schiavo [=tam tu illum videre ingenuum potes quam ille te servum]. Con la sconfitta di Varo la sorte degradò socialmente molti uomini di nobilissima origine [=multos splendidissime natos], che attraverso il servizio militare aspiravano al grado di senatori [=senatorium per militiam auspicantes gradum]: qualcuno lo fece diventare pastore, qualche altro guardiano di una casa. E ora disprezza pure l'uomo che si trova in uno stato in cui [=eius fortunae nomine in quam: letteralm., “un uomo di quella fortuna/che è in quello stato (eius fortunae) nella quale/nel quale (in quam)…], proprio mentre lo disprezzi [=dum contemnis], puoi capitare anche tu.

-

33 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comments


bottom of page